Quella storia raccontata da un ubriaco, di Corrado Ruggiero
Mi trovo davanti a un “romanzo breve” o a un “racconto lungo”? Il dubbio mi prende appena ho tra le mani il nuovo romanzo (breve) o racconto (lungo) di Antonio Spagnuolo. Antonio Spagnuolo che è poeta, napoletano del Vomero, ma che con la Napoli delle cartoline non ha niente da spartire. Una Napoli dai colori caricatissimi sotto un cielo così azzurro da far venire male agli occhi. E il mare, poi, che, con il suo blu profondissimo, non è da meno del cielo. La Napoli di Spagnuolo è un’altra Napoli, è l’altro volto di Napoli. Il volto notturno e, perciò, indecifrabile di una città che oscilla tra Posillipo e Lago d’Averno, tra la dimora incantata delle Sirene che lenisce ogni dolore e l’anticamera tenebrosa delle profondità infernali. L’arco del golfo è il tracciato della sarcitura tra il “sopra” e il “sotto”, tra il solare e i recessi catacombali. Recessi oscuri e paurosi che non sono fuori di noi ma dentro di noi: basta scrostare appena appena la patina lucidissima della cartolina illustrata e la notte prende il posto del giorno. Un vecchio professore di liceo si siede, quasi ogni giorno, in un caffè del centro davanti a una tazzina di caffè. Nel negro licore raccolto nella tazza, rincorre i fantasmi di un passato che egli si sforza di decifrare, di catalogare, di mettere in ordine. Decifrare-catalogare-mettere in ordine: per poterlo capire, finalmente; per farsene una ragione. Se non che i materiali che salgono su evocati dalle catacombe della memoria si presentano dinanzi al teatro del presente, ognuno di loro, scomposto e, tutti quanti insieme, scoordinati. Non riescono a farsi presente, a ripetere nell’oggi la magia maliosa dell’ieri. Rimangono brevi lampi luminosi. Figure di una chiarità solare e fascinose ma astratte e lontane. «Col vestito di lino e la fascetta arancione fra i capelli, e i bei torniti seni, e le mani paffute e bianche, e la pelle incipriata e lattea, e le reni ondeggianti, piena di tenerezze, di aggettivi vezzosi, di invenzioni verbali, nella sua folgorante umidità erotica, ella riusciva a far stordire qualunque uomo che le si accostava, anche per la più banale delle occasioni quotidiane». Figure che si costruiscono o ricostruiscono a pezzo a pezzo (vuol indicare proprio questo procedere della memoria per aggiunte successive, l’andamento anaforico del periodo ovvero il suo procedere attraverso le «… e … e … e … e …»?) nella mente che rielabora un passato inafferrabile. Una figura «che si mostrava sempre più come un sogno maturato per lunghi ardori e frenetiche invenzioni, carico di svolte voluttuose, mutevole a ogni accenno» preda com’era «di allucinazioni o di false rimembranze». False rimembranze e, insieme, la «folgorante umidità erotica» intensissima
nella sua enigmaticità. Ma il passato non può rivivere, diventare presente, di nuovo vivo e
incalzante dinanzi a noi. Con gli anni, il sangue scorre più stanco nelle vene e il passato, se torna, torna come incondita folla di rottami, relitti di un naufragio inevitabile: «…la vita sembrò una storia raccontata da un ubriaco…» che è la traduzione (quasi) letterale di un notissimo tratto di Macbeth per cui «…la vita è una favola assurda narrata da un idiota, piena di urla e sfrenate passioni che non significano nulla…». Antonio Spagnuolo nasce poeta e rimane poeta. La sua scrittura poetica – che è cifrata e allusiva, ellittica e, insieme, trasparente – tracima in questo romanzo (Un sogno nel bagaglio, Manni Editori) e ne ne viene fuori un tessuto linguistico e narrativo in cui solarità e tenebre si scambiano continuamente di posto. Le due mitiche figure di Partenope e della Sibilla Cumana, la divinità solare e quella enigmatica, stingono l’una sull’altra, i colori si mescolano, si sovrappongono e nessuno sa più dire dove inizia l’amaro della felicità e dove finisce la lenta dolcezza del dolore.