AntonioErrico, L'esiliato dei Pazzi

18-03-2014

Un mosaico stilistico di alta perfezione, di Alessandra Peluso

Capita nel leggere di imbattersi in testi di un certo rilievo e spessore culturale per i quali nasce inconsapevolmente il senso dell'angoscia, quel senso heideggeriano del limite che soffoca, inquieta. Passa inequivocabilmente - quando presa coscienza della propria finitezza - si accetta coraggiosamente di parlarne così come mi accade leggendo L'esiliato dei Pazzi” (Manni) di Antonio Errico.

È un romanzo intriso di storia, amore, conflitti esistenziali, sentimenti, stati d'animo in un mosaico stilistico di alta perfezione prosaica e poetica. C'è molta poesia nel romanzo di Antonio Errico diffusa ovunque con fare amabile perché si confà alla scrittura dello stesso autore. Sublime poesia intessuta in un dramma di un esiliato, condannato per aver ordito la congiura contro Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, nel 1478. Oltre al carattere interessante della storia emerge qualcosa di più nascosto nei meandri della condizione umana, impossibile a vedersi senza un faro che ci guida come in questo caso si dimostra Antonio Errico che riguarda lo scambio epistolare anzi le epistole dell'esiliato - volutamente anonimo - indirizzate al “Nobilissimo Signore” Lorenzo il Magnifico. Prevale il senso dello smarrimento, del perdono, della paura, della solitudine nella quale può trovarsi qualunque lettore che si accosta in condizioni di esilio, o propriamente solitudine, isolamento, inquietudine. Non è necessario infatti andare fisicamente o forzatamente in esilio per sentirsi esiliati, lo si è alle volte nel quotidiano, nei momenti di una vita nella quale si percorrono le tappe: «A volte ho l'impressione che tutta la mia vita sia soltanto una pantomima, oppure un sogno che mi passa dentro gli occhi, o un racconto che mi faccio di una storia di cui sono il narratore ma alla quale non appartengo e che non mi appartiene». (p. 31). Ecco appunto accade di vivere la narrazione del sé dal punto di vista dell'altro, dalla sua volontà, da come piace ma non come in realtà si è, un po' come avviene al personaggio di “Uno, nessuno, centomila” che guardandosi allo specchio si perde e non sa più ritrovare la sua identità, il suo essere. Chi sono? È una domanda che l'autore pone a se stesso, l'esiliato, chiunque prima o poi si pone. «Credevo che alla solitudine ci si possa abituare, che potesse essere compagna anche discreta, che aiutasse il pensiero a meditare. Non è così. È un ossessione. Ingigantisce ogni cosa, deforma il sentimento». (p. 33).
Quanta saggezza in quest'uomo e quanta verità che accomuna l'essere umano. Ci sono dei meravigliosi monologhi nei quali si assiste ad una grandezza e al contempo miseria dell'uomo sorprendenti, parole che tagliano il petto lacerando ogni certezza. Ne “L'esiliato dei Pazzi” c'è la ricerca del sé, del padre, la memoria della madre, l'esperienza della solitudine, la scoperta di Dio. È un viaggio affascinante questo romanzo e paradossalmente spaventoso, drammatico che dalla Firenze dei Medici giunge sino al profondo Sud, nella misteriosa e mistica Otranto. È da leggere, contemplare la narrazione o auto-narrazione di Antonio Errico, la bellezza delle parole e la loro abissale profondità. C'è pathos, c'è poesia sublime: «L'infinito è l'orizzonte senza ombra di limite dell'Adriatico. È un dilagare di luce che si dispiega da quella posizione (…) è la subitanea scomparsa dalla mente di ogni idea di lontano e di vicino. L'infinito è la marea che attrae a sé il vuoto dell'aria. È una perdita di senso al cospetto dell'abisso». (p. 27). Non si può restare indifferenti al valore inestimabile dell'essere umano che pensa, si interroga, si racconta come storia, come la vita di un uomo narrata in “L'esiliato dei Pazzi” dalla penna arguta e sensibile di Antonio Errico.