Tra precarietà e rinascita morale, di Valentina Coluccia
Il canto della pernice di Benedetto Di Pietro è il percorso emotivo e geografico di un uomo e di uno strappo delle radici assieme al tentativo di un nuovo radicamento. Il protagonista, infatti, è una persona che evidenzia le qualità migliori, effettivi sono i riconoscimenti, qua e là nel mondo, pur rimanendo ancorata alle origini. Proprio queste origini vivono sospese come nostalgia remota di qualcosa che completa non è. Radici materializzate dalle esperienze dei genitori, emigranti, quando lavoravano nelle miniere di carbone del Belgio, fino al ritorno –seppure per breve tempo– nel paese d’origine, ormai ricco di estraneità. Girovago fra essere e dovere il nostro protagonista si chiama Tindaro per la “Madunnuzza du Tinnaru”. Tindaro ha in sé la sacralità del nome, la fede della madre, una devozione a fior di pelle, ma pur sempre una barriera contro l’avverso destino. Lei gli parla del padre, salvo per miracolo mentre il fuoco divorava carbone e uomini, in un disastro minerario, prima della sua nascita. Ha l’intraprendenza forzata del padre che vaga per la sopravvivenza, con l’incertezza nelle scelte. Si adatta con una sorta di impassibilità a quanto gli accade, perché così vuole la vita. Va nel tempo dei cambiamenti storici, attraversa accadimenti tragici con tutta la sua sicilianità, non distante da quella dei Malavoglia del Verga: un’imbarcazione chiamata Speranza, un viaggio chiamato Salvezza. Tindaro va come le stagioni, tra il buono e il cattivo, tra tempesta e sole. Prende alla fine coscienza di sé, nella sua visuale c’è una nuova ottica: il lavoro non è tutto se è a discapito delle pulsioni emotive. Tindaro cambia donne perché il vivere, con le sue necessità fa mutare, cambia identità sia pure come compromesso tra l’antico mitizzato e il nuovo forse non distinto da ignote sofferenze e porta con sé la precarietà del destino dell’uomo: annullamento per la rinascita di pirandelliana memoria.