Benedetto Di Pietro, Il canto della pernice

01-11-2010

Il Canto della Pernice… e quello delle sirene

, di Salvatore Di Fazio



«[A Gaetano] — scrive l’autore — passavano davanti agli occhi le fasi della sua vita; in particolare, le vicende più brutte del suo passato ora si presentavano davanti alla sua coscienza, senza pietà: l’abbandono dei genitori, degli amici, della sua terra, il disastro della miniera di Marcinelle. Lo smarrimento era totale e per un attimo si era sentito perduto. Malediceva la miseria e chi aveva amministrato la sua città, incapace di inventarsi qualcosa per trattenere la gente costretta ad emigrare e obbligata a vivere un continuo stato di sofferenza e di provvisorietà in giro per il mondo».
Sono racchiusi in questa riflessione sia l’epicentro ideologico e narrativo sia la chiave di lettura e di interpretazione del romanzo di Benedetto Di Pietro, Il canto della pernice, Piero Manni Editore, San Cesario di Lecce, 2009: opera, questa, con cui egli esordisce nell’universo della letteratura dopo numerose e fortunate esperienze nel campo della poesia, della critica e degli studi filologici sulla lingua gallo-italica di San Fratello, dove Di Pietro è nato.
L’odissea dell’emigrazione con le sue incognite, i suoi drammi, i suoi oscuri risvolti, le sconosciute e imprevedibili storie personali, diventa qui accidentata avventura, a metà strada fra il racconto epico e il documento realistico, e da umile storia familiare si fa viaggio nell’ignoto: percorso emblematico riassorbito in ventaglio di azioni di sempre più ampio respiro, che si sfilacciano in tante vicende quanti sono i personaggi che le affrontano e le incarnano, ora per scelta personale ora sotto le spinte del caso. Il quale, pirandellianamente, governa gran parte degli eventi umani.
Luogo geografico e cerchio focale di avvio del racconto è la città di Patti da dove, negli anni Cinquanta, Gaetano Ternaro, bravo falegname che trova faticoso sbarcare il lunario, parte per raggiungere il Belgio la cui miniera di Marcinelle necessita di operai.
Un viaggio estenuante, in un vagone di terza classe, un alloggio in baracca, il durissimo lavoro dentro le abissali viscere della montagna, l’immagine dell’amata Teresa sempre nel cuore, mettono a dura prova il giovane, che tuttavia, l’anno successivo, può tornare al paese, sposare la ragazza che l’aspetta e condurla con sé in quella nazione lontana. La solitudine, lo sradicamento, il disagio saranno, anche per lei, l’amaro prezzo da pagare per catturare il sogno dell’emancipazione. Ma è solo un miracolo se Gaetano, a differenza degli altri 136 italiani cremati vivi tra le fiamme infernali di Marcinelle, riesce a sopravvivere. «Me ne torno in Sicilia — gli urla in faccia Teresa — se continui a fare il minatore».
Tindaro, il figlio nato in terra straniera, divenuto adulto, percorrerà altre strade, toccherà altri lidi molto più remoti, amerà e si unirà con altre donne, cambierà addirittura identità senza lasciare traccia di sé. La moglie Letizia, credendolo morto, si unirà a un vecchio compagno di scuola, Vittorio, mentre lui, Tindaro, assunto il falso nome e cognome di Miguel Consalvo, convivrà con la bella Consuelo. In vacanza a Tobago, Letizia fatalmente incontrerà il “defunto” marito Tindaro, ma “per convenienza” fingerà di non riconoscerlo. Per cui, se le due coppie, finita la vacanza, si abbracceranno prima della separazione definitiva, è perché la pernice, quando canta, non fa mai il suo interesse…
Benedetto Di Pietro rivela in quest’opera una inedita abilità affabulatoria che si estrinseca e dispiega in un tessuto di vicende felicemente articolato e liberamente aperto ad ogni tipo di sorpresa. La fabula e l’intreccio, progressivamente amplificandosi e caratterizzandosi, svelano al lettore crescenti spiragli di creatività e di verità, mettendo a nudo quante rinunce comporti ai genitori emigrati il riscatto dei figli e dei figli dei figli, in grazia dei quali e per amore dei quali sono spesso disposti a sacrificare tutto: la propria tranquillità, il proprio mondo affettivo e culturale, le radici stesse del proprio essere uomini. Se è vero, infatti, che la iniziale tensione emotiva dei protagonisti si va stemperando nello sviluppo degli accadimenti cui vanno incontro le nuove generazioni di Gaetano Ternaro — aduse ad affrontare le circostanze quotidiane secondo coordinate mentali ribaltate rispetto a quelle della famiglia di origine — non è meno vero che l’emigrazione resta un male antico quanto antica è la storia umana, perché fondamentalmente esperienza di dolore e di pena anche quando ci si affranca dall’indigenza.
In sintesi, Il canto della pernice è uno di quei libri che trasportano e coinvolgono il lettore, guidandolo nei meandri di una collettività avida, refrattaria ai bisogni ineludibili del cittadino, e dentro uno degli spaccati sociali più inquietanti e difficili del periodo postbellico quando fuggire dal proprio borgo era per moltissimi siciliani una chimera, ma dall’ambiguo volto e dal non meno ambiguo canto. Allora come oggi.