Beppe Puntello, Uomini di onore

17-02-2010
L'interminabile Sicilia, di Vincenzo Guarracino

È più che un romanzo Uomini di onore, da poco edito dall’editore Piero Manni di Lecce. È la densa epopea di una casta, quella appunto degli “Uomini d’onore” del titolo, in via di estinzione sullo sfondo di un’arcaica e molto vera Sicilia tardoottocentesca, metafora e incarnazione dell’Italia del nostro oggi con i suoi problemi irrisolti (e forse perfino irrisolvibili): un’epopea che prende corpo in un libro che potrebbe a buon diritto ambire ad essere considerato un vero e proprio caso letterario, se soltanto i canali della promozione e della divulgazione non fossero così miopi.

Autore ne è Beppe Puntello, recentemente insignito del Premio “F. Esposito”- Ceraso, Cilento (estate 2009),che in un’ampia e ambiziosa narrazione, un autentico affresco storico, mette in scena fatti e personaggi dotati di un concreto spessore storico, in un’opera di avvincente qualità romanzesca, anche se ben diversa dal tradizionale romanzo: diversa sia per la materia rappresentata, sia soprattutto per la tecnica espressiva adoperata.
Prima di vedere cosa narra, è bene dire due parole su chi è Puntello, una figura piuttosto atipica nel panorama letterario di oggi, al suo esordio come narratore. Tutt’altro che un letterato, Beppe Puntello è, infatti, oltre che un bonvivant,un attempato signore, un medico, che la vita l’ha trascorsa, godendosela anche (beato lui!), tra istituti di ricerca (con relativo ricco curriculum di pubblicazioni scientifiche), aule universitarie, istituti scolastici e campi di golf, conservando sempre un’invidiabile capacità di sorridere di sé e degli altri, e che finalmente ha trovato tempo e ardire di dare in pasto al pubblico la sua passione insana e segreta per la scrittura: una passione coltivata e alimentata fin da giovane, da quando, cioè, amico di Antonio Delfini, cui aveva dato da leggere le sue nugae letterarie, aveva da questi sentito autorizzato l’impulso a trasferire sulla pagina emozioni e ricordi d’infanzia, cosa che ha fatto per quasi mezzo secolo fino ad approdare all’odierna pubblicazione della sua fatica multum invigilata lucernis.
Al golf-club di Montorfano, nei pressi di Como, lui è di casa, certamente, da almeno un quarantennio; ma, ora, più che altro, lo frequenta per intrattenersi con amici non sempre compiacenti, ai quali è andato propinando in lettura pagine su pagine del suo libro davvero “interminabile” (nel più etimologico senso freudiano del termine) sulla Sicilia e sulle storie familiari ad essa collegate.
A pensarci è un fatto davvero singolare e non senza significato che anche un altro Grande Siciliano, il “Siciliano di ghiaccio”, come lo chiamavano per ripicca le signore dell’epoca, ossia Giovanni Verga, abbia pensato e descritto la sua epopea dei Vinti, I Malavoglia, lui pure qui al nord, tra il Sacro Monte di Varese e le mondane raffinatezze lariane di Villa d’Este e forse i verdi campi della stessa dependance montorfanese su cui è attore e protagonista Puntello. Si vede che è forse un destino dei siciliani vivere al nord con mente e cuore a sud: la vita, più che viverla, la sognano e la scrivono, evidentemente, come aveva a suo tempo rilevato non senza amarezza un altro grandissimo siciliano, Luigi Pirandello.
Ma veniamo al libro. Ciò che vi viene narrato, o per meglio dire rappresentato, è una storia di famiglia, che trova il suo punto di riferimento in un luogo, il baglio, una casa padronale di campagna, vero e proprio cuore pulsante di tutto il libro, intorno a cui ruotano eventi e personaggi. Il tutto, sulla scena della Sicilia occidentale, nello spazio cruciale di un quarantennio, a partire cioè dal 1860 fino al 1899, anno in cui si colloca concretamente l’anamnesi, l’esplorazione a ritroso attraverso l’occhio prismatico della memoria.
Una storia vera, dunque, su una scena vera e con uomini veri, che viene fatta emergere dallo scrigno della memoria attraverso le parole del protagonista, un Innominabile, un “Uomo di Onore”, vero e proprio “deus ex machina” di tutta quanta la vicenda, che nel narrare la sua vita emblematicamente riassume e condensa la parabola di una casta, privilegiata ma non per questo non illuminata e responsabile, dotata com’è di un innato senso della giustizia, che la sua parte l’ha recitata fin quando non si è vista soppiantare da uomini infidi e senza scrupoli, spogliata progressivamente delle proprie prerogative, su una scena in cui a dominare è stata sempre più la politica e l’uso più spregiudicato del potere.
Ne viene fuori una Sicilia (del corno più occidentale dell’Isola, il meno esplorato e descritto dagli scrittori), niente affatto convenzionale, con luoghi e personaggi reali e al tempo stesso coi suoi riti e i suoi schemi mentali e sociali, oltre che con i rapporti economici e familiari calati nella vita quotidiana (dove un ruolo non marginale lo gioca il sesso), drammi e trionfi di un composito universo rusticano, di contadini, nobiltà di provincia e “fimmini”, autentiche vestali queste ultime del tempio che è il baglio: cose tutte che vengono rappresentate e “drammatizzate” in presa diretta, con grande realismo linguistico ed espressivo, nell’incontro-scontro tra i diversi personaggi, penetrando fin nei segreti del letto coniugale.
Il risultato è una sorta di “documento umano” (giusto come dicevano i Veristi), non privo anche di punte di gustoso bozzettismo, che acquista via via un autentico valore antropologico: il documento di un passaggio storico da una concezione del Potere, autorevole e paternalistico, a quello, perverso, alternativo e malavitoso, della Mafia (qui mai nominata ma aleggiante come un fantasma di là da venire), dalle ceneri cioè di una casta, o meglio di una “razza”, quella degli “Uomini d’onore”, incarnazione stessa della Legge, alla drammatica realtà dell’Arbitrio eretto a Sistema, con l’avvento di “Uomini senza onore”, con una verità che non trova uguali in altre opere più o meno recenti.
È un romanzo di “voci”, polifonico, da ascoltare più che da leggere, fatto essenzialmente di un intrecciarsi fitto e avvolgente di dialoghi tra Protagonista e comprimari, attraverso cui si sollecitano e risvegliano memorie e si dà corpo a vicende e personaggi, che vivono sì del loro specifico valore storico e referenziale, ma anche soprattutto attraverso le prismatiche sfaccettature dei vari punti di vista, in un dialogato che prende il sopravvento sulle descrizioni e crea un racconto vivo e drammatico da dare l’illusione di un’azione teatrale più che di una narrazione.
Si tratta, certo, di una tecnica narrativa non nuova (quella dei “racconti intorno al fuoco” dei grandi realisti dell’800, dei Russi e dei nostrani Veristi), ma qui è di grande efficacia per il fatto che si conservano non solo colore e la sintassi del parlato, ma anche e soprattutto le parole e il modo quasi di gestire dei protagonisti, la “verità” insomma di un codice espressivo, che è fatto non solo di termini dialettali (non solo del siciliano, bensì anche del lombardo, del livornese, del modenese), ma anche di silenzi e allusive ambiguità.
Ne deriva una rappresentazione (non ho usato a caso questo termine, parendo tutto il testo una sorta di copione pronto per una rappresentazione teatrale o cinematografica), che coinvolge molto e avvince, ancorché imponga al lettore un’attenzione continua col rischio di non riuscire a coglierne i nodi essenziali ove si adoperi una lettura rapsodica (difetto, come è noto, rimproverato a suo tempo anche al Verga!): perché i personaggi vengono fatti agire attraverso le loro parole, conservando ai fatti il sapore di un vissuto determinato dai loro tic, dai loro modi esprimersi e agire, nella maniera più trasversale e allusiva possibile, con silenzi e mezze frasi, tutto questo su una scena riconoscibilmente realistica, sia dal punto di vista storico che antropologico.
Evoco la figura del Verga solo perché qui è del mondo siciliano rusticano che si parla, ma senza alcuna concessione al tragico o patetico che sia di una condizione da “vinti”: tutt’altro che “vinti” sono infatti i personaggi puntelliani, e anzi non nascondono l’orgoglio della loro appartenenza ad una casta di padroni, ancorché con una dose di pietas che li fa molto umani e socialmente accettabili. Si potrebbero chiamare in causa anche il Federigo De Roberto dei Viceré e ancor meglio Tomasi di Lampedusa, perché l’Innominabile ha non pochi punti di contatto con il Principe di Salina, non perché sia modellato su quello ma perché qui è lo stesso ambiente, le stesse grandi problematiche che si riscontrano anche con quel grande libro, sia a livello di grande che di piccola storia, e per giunta nello stesso lasso cronologico, la parte conclusiva del secolo XIX. Proprio in riferimento a quest’ultima considerazione, si potrebbe addirittura azzardare la definizione di “Gattopardo di campagna”, come ha fatto qualcuno (il critico Lorenzo Morandotti, per esempio, sull’edizione comasca del “Corriere della Sera”), per inquadrare e comprendere in qualche modo protagonista e personaggi di questo libro.
E valga, a conferma di ciò, l’insistenza con cui lo stesso autore Puntello colloca esplicitamente l’idea stessa del suo libro nella lettura critica, molto “critica”, di certe pagine del romanzo di Tomasi di Lampedusa, nei primi anni ’60, a ridosso della sua pubblicazione.
Questo per dire che, ancorché sembri vivere nella scia di altri libri, di quelli di Verga, di De Roberto o di Tomasi di Lampedusa (ma ancor più forse di Cechov e Turgenev), questo romanzo è veramente un’altra cosa: qui c’è una verità che in quelli, opere eminentemente letterarie!, forse non c’era, ripescato com’è dal pozzo delle autentiche memorie, familiari e sociali, senz’altro schermo se non la fierezza delle origini e la volontà di narrare una Sicilia “vera” oltre ogni schematismo e sociologismo. E quel che è più apprezzabile, “da una certa distanza”, storica e geografica, come teorizzava e praticava Verga.