Carlo Alberto Madrignani, La filosofessa

01-09-2005

Il 1753 è una data da ricordare. Lidia De Federicis e Mariolina Bertini intervistano Carlo Alberto Madrignani


Parliamo dunque di quel che è successo nel 1753. Entriamo in argomento per la via più semplice, chiedendole qual è il romanzo dell’anno e (sono parole sue) “cos’è questa Filosofessa letta dal popolo e rifiutata dai critici”.


Quello che gli storici e i critici non dicono è che a metà del Settecento anche nella provinciale Italia si era creata una cultura diversa da quella classicistica. Come a dire che era cresciuto un pubblico parallelo che non leggeva solo opere latine e della classicità italiana. Nel giro di pochi decenni giornali, opere teatrali e romanzi tradotti o adattati avevano conquistato una fetta di popolo alfabetizzato, non egemonizzato dalla Grande Tradizione. Era l’emergere dal basso di una cultura antielitaria, come ben vide un raffinato come Calvino, il quale inaspettatamente fa l’elogio del “terreno (…) graveolente delle esigenze pratiche, delle richieste di mercato, della produzione di consumo”. Di questo clima di rinnovamento è spia la straordinaria fortuna dello Spectator, specie nelle sue versioni francesi, e sulla stessa lunghezza d’onda si muove la passione per il teatro e per i romanzi, anch’essi francesi o inglesi. La lingua francese domina, e soppianta o almeno mette in crisi fuori dai luoghi istituzionali la supremazia delle lingue classiche (latino e volgare illustre).
Insomma era nato un pubblico di incerte dimensioni e di malcerto acculturamento abituato al piacere del romanzo, che aspettava di leggerne di autori italiani. Pietro Chiari appena arrivato a Venezia sfida prontamente Goldoni per crearsi una notorietà letteraria e mondana, e ci riesce. Venezia si farà conquistare almeno in parte da questo stratega disinvolto e spericolato. Affermatosi nel teatro, non gli sfugge il vuoto in campo narrativo che aspettava di essere riempito e nel 1753 lancia il primo romanzo scritto in lingua italiana secondo le modalità della moderna narrativa francese e inglese. La filosofessa italiana nasce come un “prodotto” omogeneo al gusto dei lettori, dettato dall’ingegnosità lungimirante di chi aveva il fiuto del mercato. Basti confrontare il suo stile spigliato con quello arcadico e rococò del Congresso di Citera dell’Algarotti per capire che il 1753 rappresenta una svolta di grande significato, da valutare nel lungo periodo, al di là delle risultanze estetiche. È forse la prima volta in cui è lecito parlare di un’estetica commerciale.


Filosofessa! Ma di quale filosofia? E in quale rapporto con la realtà femminile?


Ma perché chiamare “filosofessa” la vivace protagonista? In primo luogo il philosophe era una figura paradigmatica che rievocava tutte le arditezze della modernità. Poi perché mettere accanto a marchese, donne di qualità o di garbo una filosofessa voleva dire aumentare le attrattive di un personaggio al limite dell’azzardo, se non del proibito.
La filosofessa potrebbe ricordare la vietatissima Thérèse la philosophe, ma l’impegno sia concettuale che (im)morale è di altra natura. Il personaggio italiano cerca una sagesse nei modi più strani e provocatorii; è un’ironia dell’esperienza cosmopolita, tutta presa dal confronto fattuale con il diverso e lo straordinario, una vita che sfiora una mise en abîme tendenzialmente infinita, più vicina alle esperienze di Roxana che alla personalità di Manon. Con il passare degli anni e dei romanzi la sfida mentale ed esistenziale verrà corroborata dall’impegno filosofico-ideologico e il romanzo diventa per un verso il banco di prova del narratore-propagandista, per un altro il luogo del sapere femminile con una forte impronta antiautoritaria e antipaternalistica (il colpo estremo ai residui della morale feudale). La donna si guadagna uno spazio che, pur senza poter ambire alla centralità, a suo modo logora e snatura il destino di marginalità e subordinazione riservatole da secoli. Rivendicazioni illuministiche e spunti libertini creano uno stile di vita nei fatti antagonista a quel ruolo della donna, che i potenti e agguerriti nemici del romanzo non vogliono vedere minacciato o stravolto, riuscendo alla fin fine a eliminare questo vile e sconveniente episodio di insubordinazione.


Per l’ultima edizione della Filosofessa lei ipotizza la data del 1830. Il successo di questo romanzo finisce dunque proprio quando si apre quella che è stata definita l’età dell’oro del romanzo?


Che si sia per o contro il romanzo, noi viviamo nella gloria dell’âge classique del romanzo ottocentesco e del primo Novecento. Per l’Italia poi, alle spalle dei Promessi Sposi è terra bruciata. Ma il romanzo europeo prende avvio, e con grande vitalità, all’inizio del Settecento e impone una vera e propria rivoluzione, quantitativa e qualitativa, parallela a quella industriale (e di tale simmetria s’interessò, com’è noto, Marx). Dopo De Foe, Richardson, Prévost e molti altri autori l’orizzonte della cultura è cambiato; la categoria del narrativo impone il gusto dello sviluppo consequenziario e sospensivo, e questo diventa lo strumento di un diverso modo di argomentare e pensare il mondo. Entra in crisi il modulo classicistico con la sua logica e la sua estetica: il pensare narrando si conquista spazi in ogni disciplina e diventa tendenzialmente patrimonio del sapere di tutti.
L’abate Chiari, allevato presso i gesuiti,intuisce la fecondità e l’irriverenza oggettiva della nuova scrittura e maneggia con spavalderia non sempre sorvegliata le risorse dello strumento narrativo. L’impresa presenta vecchie e nuove difficoltà per arrivare all’arduo traguardo della leggibilità: la ricca inventiva cozza con una tradizione linguistica difficilmente malleabile, così come la rincorsa delle leggi del mercato fa sì che sul mercato impenda il rischio di formule corrive e ripetitive. Rimane il fatto che il 1753 è l’inizio di un’innovazione carica di futuro; se è vero che la fortuna di Chiari entra in crisi prima che finisca il secolo, è a lui che si deve se in Italia nasce un primo modello narrativo “popolare” in grado di confrontarsi con la cultura illuministica. Arriverà il Romanticismo a mettere a tacere questa forma espressiva, pur ereditando da quella stagione una maturazione al romanzo estesa su gran parte della penisola.


A questo romanzo lei com’è arrivato?


Da tempo mi è chiaro quanto sarebbe utile mettere insieme un corpus della tradizione romanzesca nazionale offrendo agli studiosi opere dimenticate o mal giudicate. L’odierna riedizione della Filosofessa (nella prima rarissima edizione del ’53) vorrebbe porsi come il primo anello di questa catena di romanzi. Insomma, la cosa più ovvia e necessaria era tornare alle origini e mettere le basi per un discorso sulla storia del romanzo italiano, dei suoi editori e dei suoi lettori. Non è bizzarro che solo l’Italia fra le grandi patrie letterarie non abbia un grosso lavoro complessivo, con date e dati, problemi e interpretazioni, apparati e indici, in cui si possa sapere dove, come e quando la tale opera narrativa abbia visto la luce? Non meno paradossale è che l’ondata narratologica degli anni settanta abbia contribuito a smaterializzare l’oggetto-romanzo sottraendolo alle dinamiche del contesto. D’altra parte giudicare un’opera senza conoscerla è una sciccheria degna della migliore teologia intraesegetica, pari all’infantile pulsione di modernizzare autori del passato. Insomma, c’è bisogno di una generazione di ricercatori che si adoperino a colmare lacune, a valutare sui dati bibliografici l’estensione e la qualità del genere letterario più letto e meno noto.


Tempi e modi di ricerca: ci spieghi (pur senza far nomi) le ragioni di una sua attuale polemica.


Di fatto, studiare il romanzo nel suo sviluppo storico significa contrastare due modalità della fruizione corrente; quella dei lettori “isolazionisti” che vedono nel romanzo una piacevole lettura a portata di mano, senza retroterra e perfino senza terra (in nome del rifiuto molto idealistico di parlare di racconto siciliano, sardo, toscano o di altri contesti), ma significa anche opporsi a quanti ritengono che il vero romanzo vada sottratto ai vincoli del genere e dei sottogeneri; è meglio sorvolare sui condizionamenti storico-retorici, come è più agevole pensare a un romanzo fast-food, senza antenati e privo di un codice caratterizzante.
Più o meno tutti scrivono sul romanzo (il che non succede per la poesia, per il teatro ecc.) in modo vago e “privato” come può avvenire per libri che ti capiti casualmente di leggere (in treno, a letto o in altri luoghi confortevoli), e questo non è di per sé un male, ma il compito del critico è di scoprire da dove nasce un certo modello narrativo, a quali nomi si riallaccia e in quale direzione si volge. Questo comporta un lavoro di scavo alla ricerca di radici e di un profilo identitario (è il caso di sottolineare come il romanzo sia, insieme al cinema e alla televisione, il prodotto più influente nel proporre modelli pedagogici collettivi?).
Circa quarant’anni fa ho intravisto i primi lineamenti di questo quadro mentre cercavo di dare una meno sommaria valutazione della narrativa di Capuana. Da allora c’è stato un risveglio di studi e di scoperte per quanto riguarda il secondo Ottocento; ora si arriva a parlare, e a impostare, edizioni critiche; ma nel complesso si pensa ancora al romanzo facendo i nomi di Manzoni e di Verga, ignorando il valore di tanti altri, magari minori, che sono poi il tessuto portante di un modus scribendi complesso, vario ed estremamente diffuso. Rimangono biblioteche, anche piccole e limitrofe, da esplorare e cataloghi da consultare e correggere. Per la verità le biblioteche, specie quelle prestigiose, per quanto riguarda le opere narrative precedenti l’Unità sono spesso lacunose; cercare poi di ricostruire la molteplicità delle edizioni (segno palese della vitalità del genere-romanzo o di alcune opere) comporta pazienza e indagini, cui corrispondono il raro piacere della scoperta e la ricorrente frustrazione provocata da estensori frettolosi e maldestri.
Non mi è facile vedere il giorno in cui verrà alla luce una Bibliografia storica ragionata del romanzo italiano il più possibile completa, articolata e adeguatamente commentata.


Un lavoro di ricerca che dura trent’anni diventa invasivo e ha effetti anche psicologici. Vuole raccontarci qualcosa delle ragioni di tale accanimento e dei piaceri, piaceri libreschi, che ne ha tratto?


Lavorare a lungo su autori di difficile reperibilità e decifrazione, e molto spesso non entusiasmanti, induce il piacere della fatica erudita, questa sì entusiasmante e vagamente ossessiva. La ricerca delle fonti (tanto osteggiata da Croce in poi, eppure ben radicata nella grande mente di Croce stesso) non solo può far scoprire granelli aurei sepolti in un gran mucchio di polvere, ma costringe a constatare cos’è un fenomeno letterario ed editoriale in una prospettiva non singulatim, ma nel suo complesso, per la cui valutazione hanno gran peso le implicazioni socio-culturali, particolarmente vivaci nella fruizione romanzesca.
Capita poi che il risultato di queste fatiche venga scambiato, con senno di poi, con un dato di ovvietà, un qualcosa di superfluo, come se rintracciare il senso originario di un romanzo non debba essere una guida, un elemento di orientamento contro l’arbitrarietà e la superficialità di letture attualizzanti e degustative (sarebbe auspicabile che i letterati si confrontassero con i risultati e con il metodo inquisitivo degli studiosi di storia delle arti figurative).
Di certo studiare, non solo leggere, professionalmente e in grandi quantità opere narrative non è sempre gratificante, e tuttavia non sono pochi i casi in cui il romanzo ti ricompensa attraverso la caratteristica più sua, quella di spingere il lettore a coniugare “letteratura” e “vita”, a passare dall’edonismo estetizzante alla problematicità del vivere, privato o collettivo (insomma proprio l’opposto della leggenda, rosa o nera, del romanzo d’evasione).