Carlo Formenti, Se questa è democrazia

07-03-2009
Nuovi media tra rischi e sfide,  di Valeria Blanco
 
Come può Facebook influire sul potere politico o un blog determinare l’imbarbarimento? C’è un sottile legame che unisce le nuove tecnologie alla politica, senza per questo far convergere i due fenomeni. Internet sembra suggerire che la partecipazione dal basso sia possibile, ma la politica, nonostante la fase di crisi in cui è la democrazia rappresentativa, sopravvive senza nemmeno prendere in considerazione questa ipotesi. Ne derivano quelli che Carlo Formenti, docente di Teoria e Tecnica dei nuovi media nel corso di laurea di Scienze della Comunicazione dell’università del Salento, nel suo libro Se questa è democrazia, chiama “paradossi”. E che poi sfociano nelle derive populiste degli ultimi tempi.
Professore, quali sono i paradossi dell’era digitale di cui parla nel suo libro?
«La rete è tipicamente intesa come uno strumento di allargamento della democrazia, e questo in parte è vero. Ma internet si è sviluppato in modo diverso dal previsto e non ha coinvolto il sistema politico, almeno nel nostro Paese. Il problema è che la logica della rete è di tipo partecipativo mentre la democrazia rappresentativa non prevede partecipazione: chi è eletto, decide. Diverso il caso degli USA, dove internet ha avuto un ruolo decisivo dell’elezione di Obama».
Perché queste differenze?
«Per due motivi: l’Italia è al quart’ultimo posto nei consumi tecnologici e c’è ancora tanto analfabetismo informatico. In secondo luogo, l’egemonia della TV è fortissima e il web non si è ancora imposto sugli altri mezzi di comunicazione».
Blog e social network sembrano dimostrare che la democratizzazione, almeno quella del sapere, è possibile.
«I social network, e parlo di Facebook che è il più usato, hanno una doppia faccia. Vanno incontro alle esigenze dei giovani perché offrono loro chat, posta, luoghi dove pubblicare video e foto ed entrare in contatto col mondo. Allo stesso tempo, però, c’è un ritorno a una dimensione meno cosmopolita, a comunità con caratteristiche locali. Il villaggio globale teorizzato da McLuhan si sta sfaldando in miriadi di villaggi locali».
Nelle sue riflessioni sui nuovi media e la politica rientrano anche i reality show e i blog.
«Cito i reality perché danno l’illusione che tutti possano andare in TV senza avere qualità particolari. Mostrarsi sembra essere diventata l’unica condizione per sentirsi vivi. Ed ecco un altro paradosso della nostra epoca: se tutti sono sul palcoscenico, non c’è più il pubblico. Quindi, nemmeno lo spettacolo può esistere. Lo diceva Baudrillard. Luxuria è un buon esempio per dimostrare che il processo di spettacolarizzazione ha investito anche la politica».
Che cosa pensa di Beppe Grillo?
«Con Grillo bisogna essere cauti. Credo abbia dato vita a una forma di populismo informatico in cui la leadership si fonda sul carisma personale. L’elemento populista sta nel fatto che in rete il leader non è chi ha esperienza politica, o un titolo, o più esperienza, ma chi riesce meglio a comunicare, in questo caso puntando sulla sfiducia dei cittadini nella politica e nei partiti. Grillo non è molto diverso da Di Pietro e dai Girotondini di qualche anno fa».
Come insegna ai suoi studenti a difendersi dai paradossi dell’era digitale?
«Cerco di parlare loro dei rischi, ma anche delle sfide e delle opportunità che offrono i nuovi media. Non è facile: inizio a rapportarmi con i cosiddetti “digital natives”, cioè ragazzi nati assieme alla tecnologia stessa. Per loro molte cose sono banali e scontate. Allo stesso tempo, non riescono a vedere quello che c’è dietro la tecnica, non hanno una visione critica. Ecco, io cerco di fornire loro gli strumenti per guardare il mondo criticamente e spiego come utilizzarli».