Resistenza in una colonia delle imprese, di Benedetto Vecchi
Internet come sinonimo di libertà. È stato questo il mantra che per oltre un decennio i libertari e i cosiddetti anarcocapitalisti al di là dell’Atlantico hanno spacciato in rete ma anche in insospettabili media mainstream. Libertà dall’ingerenza dello stato e delle grandi organizzazioni economiche, ma anche condivisione del sapere e libera circolazione delle informazioni. Erano questi i quattro punti cardinali che hanno orientato i discorsi, le retoriche e l’attivismo in rete. La realtà è cominciata a cambiare quando le imprese hanno cominciato a guardare al web come una nuova frontiera per il business. Anni di «nuova economia» e di profondo mutamento della rete, senza che ciò intaccasse la convinzione che il regno della libertà era già iniziato. Molti gli studiosi e attivisti che hanno creduto e sostenuto che il cyberspazio fosse un mondo parallelo dove erano banditi la ricerca del profitto, l’agire economico come unico modello di azione collettiva.
La vita dentro lo schermo ha invece molti tratti comuni con la vita fuori lo schermo. Per i teorici radicali è venuto quindi il tempo dell’autocritica. Chi ha cambiato idea è stato anche Carlo Formenti che, nel volume da poco pubblicato, Se questa è democrazia, continua il suo percorso di rilettura dell’era digitale avviato con Cybersoviet. Non è questa, tuttavia, un’autocritica rispetto alle convinzioni che avevano mosso la sua produzione teorica su Internet negli anni scorsi. Bensì, la registrazione che il conflitto che aveva opposto una logica proprietaria a quella «aperta» della rete ha visto prevalere le imprese. E di come questo esito debba necessariamente registrare un aggiornamento della cassetta degli attrezzi del pensiero critico.
Il buon senso porta a concordare con questo «programma di lavoro». E sarebbe quindi inutile e dannoso un richiamo alla coerenza alla dolorosa consapevolezza di una sconfitta. E tuttavia questo libro di Carlo Formenti pone un nodo teorico e dunque politico che va sciolto. La questione centrale è come muoversi in uno scenario mutato, dove la partecipazione e la condivisione del sapere e relativa «economia del dono» più che fuoriuscita dal capitalismo tanto dentro che fuori lo schermo. E dunque: quali esperienze, realtà e soggetti sociali e produttivi sperimentano forme di «resistenza» e di conflitto nella rete?
Il punto di partenza necessario ma non sufficiente per sviluppare un «punto di vista» passa quindi necessariamente per la produzione di software open source e free, ma anche per i ricercatori scientifici che puntano a «socializzare» i risultati del loro lavoro senza sottostare alle leggi sul copyright e sui brevetti. E soprattutto per tutte quelle forme di «aggregazione» di lavoro precario o «intellettuale» che hanno scelto la rete come medium organizzativo. Senza occultarne le ambivalenze, i limiti, ma anche senza ridimensionare le potenzialità di critica all’esistente che tutte queste esperienze tutt’ora esprimono.