Se è vero che il web può essere uno strumento prezioso per dare spazio a nuove forme di partecipazione dal basso, non mancano le insidie, le false ideologie dei moderni profeti della tecnologia. Il web, infatti, è ancora utilizzato in forma prevalentemente privata, con una vocazione ‘impolitica’. Questa la visione che Carlo Formenti, docente di Teoria e Tecniche dei nuovi media presso l'Università del Salento, esprime in Se questa è democrazia. Paradossi politico-culturali dell’era digitale pubblicato recentemente da Manni Editori. Formenti è stato a lungo caporedattore del mensile “Alfabeta”, è giornalista del Corriere e autore di vari saggi, tra i quali Incantati dalla rete (Cortina, 2000), Mercanti di Futuro (Einaudi 2002) e Cybersoviet (Cortina, 2008).
Prof. Formenti, ogni volta che un nuovo mezzo di comunicazione di massa irrompe nella vita dell’uomo qualcuno si affretta a proclamare che possa migliorare le condizioni di democratizzazione della società. In rete chiunque può aprire un blog e dire la sua. Anche con Internet siamo di fronte alla ennesima illusione di maggiore democrazia?
Questo discorso sulla utopia della democrazia elettronica è abbastanza complicato. C’è un primo livello, visto in una prospettiva di lungo periodo, rispetto all’assunzione della tecnica come momento di nascita di un immaginario utopistico che parte da lontano, da Breton e la sua “utopia della comunicazione”, e Wiener che parla di “anarchismo razionale”. Si delinea una visione della tecnica come strumento unificatore della cultura globale, sorta di utopia cosmopolita. Una tecnica che assume valore quasi escatologico perché conquista un potere simbolico una volta attribuito alla religione.
Poi, più nel dettaglio, l’utopia della tecnica è specifica americana, richiama l’epopea della conquista dell’Occidente: il grande mito della frontiera. Ripresa successivamente, negli anni Settanta, dai movimenti alle origini di Internet, la prima generazione di comunità virtuali che vedono protagonisti ingegneri e hacker. C’è dietro tutta una simbologia specifica, di matrice libertaria: un’ideologia di liberazione dell’individuo grazie alla tecnica, che affonda le radici nell’immagine del self-made man e si basa sulla capacità di empowerment del singolo, sul coraggio di accrescere le proprie competenze. Tutto questo immaginario viene rilanciato con la fase di crescita della rete negli anni Novanta, quando Internet diventa supporto del Web e navigabile da milioni di utenti privi di particolari competenze tecnologiche. Con lo sviluppo del web 2.0, dopo la bolla speculativa e il crollo della Net Economy, si comincia ad affermare una cultura della customer satisfaction, in termini di interazione con l’utente e di una cultura della comunicazione politica più efficiente basata sulla personalizzazione dei contenuti.
Sì, ma il punto di approdo di questa breve storia critica della Rete, la grande interattività del mezzo raggiunta oggi, porta a reali sviluppi di una democrazia elettronica?
Stefano Rodotà ha affrontato molto approfonditamente il tema delle opportunità date dalle nuove forme di democrazia diretta. Il termine che lui usa è “democrazia continua” perché richiama la possibilità di controllo non intermittente da parte del cittadino sull’operato dei governanti. Ma allo stesso tempo Rodotà denuncia i rischi del cyberpopulismo insiti nella democrazia elettronica, nuovo spazio per il potere carismatico dei leader che assomiglia molto a quello dei tradizionali broadcast. Tuttavia, dietro questa ideologia del free speech c’è anche una fiducia che possa mettere in crisi la burocrazia, gli apparati gerarchici, le vecchie caste professionali, riscoprendo una dimensione del cittadino utente/consumatore che ha sempre più voce in capitolo (con una linea di confine però sempre meno marcata tra queste due categorie, altro sintomo - come denuncia Colin Crouch- della difficoltà a distinguere il pubblico e il privato). Concretamente, quindi, ci sono delle potenzialità effettive di sviluppo della postdemocrazia, casi interessanti di adozione delle pratiche di democrazia partecipativa, terreno sperimentale per forme non gerarchiche di discussione deliberativa e di confronto civico.
Sperimentazioni riuscite?
Riuscite solo nel caso delle piccole comunità. Pratiche di democrazia partecipativa sono molto più difficili quando coinvolgono migliaia di persone. Gli stessi movimenti no global che avevano introdotto un modo diverso di fare politica, coniugando forme di partecipazione diretta on line e principi di ispirazione anarchica, entrano in crisi quando il web 2.0 conquista milioni di utenti. Facebook da solo oggi ha 200 milioni di iscritti.
Perché questo passaggio complica le cose?
Perché da una cultura di nicchia, di comunità digitali mosse da forte motivazione si passa ad una cultura di massa attenta prima di tutto ad aspetti privati della vita di ognuno: siamo pur sempre di fronte a una comunità digitale ma non più di confronto, non più di partecipazione.
E spesso in rete questi fenomeni sono estemporanei. Come mai?
Per le reti come per i movimenti, è difficile costruire continuità. Fb e altri social network sono strumenti perfetti per catalizzare l’attenzione su eventi specifici. Riescono in poco tempo a rovinare l’immagine di un politico o a rovesciare un risultato elettorale a poche ore dal voto. Ma diverso è il discorso quando parliamo di stabilità. Il caso di Obama è emblematico. Obama ha avuto una capacità straordinaria di convogliare e aggregare in rete una spinta dal basso, ma quando è diventato presidente ha tenuto certamente aperti dei canali con i cittadini ma con un indice di interattività molto più ridotto. Una cosa è l’uso della rete in campagna elettorale, una cosa è al governo. L’Italia è molto indietro anche su questo…
In che senso?
Dai dati di una ricerca sull’uso di Fb in campagna elettorale fatta dall’Osservatorio di comunicazione politica dell’Ateneo di Lecce emerge che nella società civile c’è un grande bisogno di coinvolgimento, molto sentito dai cittadini. Ma che di fatto i politici non riescono a darne spazio, a tenere canali di dialogo aperti. C’è una difficoltà oggettiva della politica a mantenere attivi gli strumenti di feedback in tempo reale tra cittadini e governanti. Del resto è molto difficile far partecipare tutti, è complicato conciliare le forme della democrazia partecipativa con quella rappresentativa. Partecipano sempre solo alcuni soggetti, gli opinion leader, gli stessi che on line sono più linkati di altri, i nodi della rete (hub, connettori) più visti.
Dalla ricerca emerge anche un maggiore utilizzo del web da parte dei politici?
Molti candidati percepiscono l’importanza della rete, ma i social network contano ancora poco rispetto alla tv sul piano della comunicazione politica. Sempre più politici aprono il loro profilo su Fb, ma pochi riescono a raggiungere numeri interessanti. Nel caso della Puglia, a parte il sindaco di Bari Michele Emiliano, gli altri scendono drasticamente in termini di visibilità.
Per molti studiosi questa incursione nella sfera privata dei politici è considerata una forma di sovversione, di controllo da parte del cittadino nei confronti del potere…
Io credo invece che ci sia una consapevolezza molto scarsa. Una difficoltà a cogliere gli aspetti dannosi della perdita di confine tra sfera pubblica e sfera privata. E questa poca consapevolezza permette alla politica di mantenere saldo un dominio gerarchico sui cittadini. Alla fine la pagina su Fb incide pochissimo sul dibattito ed è strumento per il politico da usare per la ulteriore spettacolarizzazione della politica. Si utilizza molto la dimensione del racconto: “Io sono come te, ti mostro la mia famiglia e i miei figli”. Ma questa incursione nel privato non è altro che un nuovo metodo per mantenere le stesse dimensioni di potere sui cittadini che c’erano anche prima.
E allora in quale prospettiva dovrebbe governare idealmente l’Europa per gettare le fondamenta di una democrazia che sappia valorizzare le potenzialità espressive della comunicazione elettronica?
L’Unione europea non è certo un modello democratico. Il tasso di rappresentatività delle istituzioni comunitarie è davvero molto basso. Però si tenta di riequilibrare lo scarso livello di rappresentanza e l’alto indice di euroscetticismo attraverso il principio di sussidiarietà. Una sorta di compensazione data al contrappeso che si crea tra i diversi livelli di governo e dalla mediazione di interessi corporativi. Da questa prospettiva di “Stato e rete” europeo si aprirebbero sicuramente più spazi per un più alto tasso di partecipazione. Però siamo ancora a livello di principi. La realizzazione pratica sembra lontana.