Una memoria proustiana e non solo, di Sandra Petrignani
Nella quarta di copertina de La stanza di Garibaldi Claudia Patuzzi si legge, in fondo a una stringata nota biografica, uno strano avvertimento: “Questo non è il suo primo romanzo”. Dico strano perché, in genere, succede il contrario: si avverte il lettore se un certo libro è un “primo romanzo”. Ho pensato a un errore di stampa, anche perché ero sinceramente convinta che si trattasse di un romanzo d’esordio. Poi leggendo e trovandomi di fronte a una prova di piena maturità, ho capito che doveva essere stata preceduta da altre prove precedenti. Si avverte, infatti, che dietro a questo romanzo c’è un lungo lavoro, che ci troviamo nella bottega di uno scrittore allenato. Allora mi sono spiegata quella strana frase di presentazione. È giusto avvertire il lettore che questo non è un primo romanzo.
È un libro scritto con sapienza e insieme ha l’immediatezza di una storia autentica, realmente accaduta. Un libro sulla memoria che celebra la memoria, proustiana ovviamente, ma non solo. Claudia Patuzzi ha l’orgoglioso ardire di inventare una sua teoria della memoria, e piuttosto originale. “E se la memoria avesse un filo simile alla bava dei ragni? Allora dopo le piogge estive si stenderebbe tra le foglie, gli arbusti e i cespugli, nei sottoboschi, nei giardini e nei terrazzi e là dove prima c’era il buio confuso, comparirebbe una traccia luccicante intrecciata a mille altri labirinti”. È un’immagine bellissima e moderna, in cui non c’è più una “madelaine” a ricreare il sapore del passato, ma c’è un “tessuto” che lega una cosa all’altra, un evento all’altro, una trama naturale, una tela di ragno (suggerita dal “filo di bava”) che è poi il lavoro dello scrittore. La bava è qualcosa di repellente che però riluce ed è frutto di un sapiente operare, l’opera del ragno appunto, un lavoro di architettura, che inganna e cattura come fa la buona letteratura. L’immagine è collocata all’inizio della storia, ed è un inizio orgoglioso: ci vuole una bella sicurezza per “infilare” in un racconto una teoria che, se da un lato è poetica, dall’altro ha una moderna calviniana geometria.
Ma non è Italo Calvino un autore a cui penso se devo collocare la scrittura di Claudia Patuzzi. Aleggia nel suo romanzo una nebbia simenoniana, come un dolore non detto che però è senso e sostrato di quanto viene narrato, suo colore e segreto. E accanto al dolore c’è la magia, delicata, di una vaga serenità, forse è la rassegnazione del protagonista, o forse l’accettazione del suo stare all’angolo, quel suo modo di stare al mondo senza disturbare, perché consapevole di quanto la sua esistenza ha effettivamente e incolpevolmente disturbato. L’autrice racconta questo destino minoritario, condannato due volte, perché esiliato dalla famiglia prima e poi esiliato una seconda volta nel segreto che questa famiglia serberà per lui. Lo stile è movimentato, quasi a restituire alla povera storia del protagonista quella leggerezza che la sua esistenza non ha potuto conoscere. Spostandosi sul doppio binario di due culture, quella belga e quell’italiana-marchigiana, si passa dal romanzo epistolare al romanzo di memoria.
Dacia Maraini ha scritto nella postfazione che le donne sono guardate da Claudia Patuzzi con minor simpatia degli uomini, ma non ne sarei sicura. Ogni personaggio ha luci e ombre, come è giusto che sia. Spicca la figura della madre di Ghislain, che lo abbandona ma continua ad amarlo, travolta dagli eventi. Non c’è giudizio, da parte dell’autrice che si limita a raccontare una storia molto forte, tanti personaggi e sempre con un affetto verso la vita spesso al limite della commozione. Commovente è il rapporto fra Ghislain e la sua “fatina”, l’autrice stessa che, scrivendo la storia di quell’infelice zio sta in realtà svelando il segreto di famiglia e scrivendo la sua propria storia.
Come disse Vladimir Nabokov in La vera storia di Sebastian Knight: “È un mistero il perché un libro molto bello abbia grandissimo successo e un altro altrettanto bello non ne abbia”. Io non so quale destino avrà La stanza di Garibaldi, ma faccio un fiducioso augurio a Claudia: di avere tutto il successo che una società letteraria onesta e non condizionata dovrebbe essere pronta a dargli.