Claudia Patuzzi, La stanza di Garibaldi

11-05-2006

Claudia Patuzzi nel labirinto della memoria, di Nicola Vacca


«A volte mi soffermo a guardare il volto svagato di mia madre o il volo radente di un uccello e mi domando: che cos’è la memoria? Da dove viene? Dove sta? È il cervello la madre della memoria? O la memoria, come una cattedrale gotica, rappresenta un mondo a sé costruito da infiniti mattoncini di fronte ai quali il nome del primo progettista si è dissolto per sempre? Ciò che conta non è il risultato, l’opera colossale che alza le sue esili dita sino a Dio?».
Ponendosi questi quesiti capitali, la scrittrice Claudia Patuzzi nel suo romanzo La stanza di Garibaldi cerca di ricostruire il filo della memoria che si perde e si ricongiunge nel labirinto del tempo.
L’autrice ricostruisce, attraverso il racconto della vita dello zio Ghislain, l’amore intenso che avverte per le proprie radici familiari.
Il romanzo diventa necessariamente un libro di memorie, che ha come protagonisti i membri di una famiglia patriarcale, ognuno dei quali rappresenta un legame forte con un passato non facile da dimenticare.
La Patuzzi formula le inquietanti domande sulla memoria per avviare una ricostruzione storica, intima e passionale delle vicende familiari.
Ogni pagina del suo libro va in frantumi di fronte ai fatti che esplodono desiderosi di essere catalogati. Ma le memorie, che qui si incontrano, sono molteplici e tutte alla fine contribuiranno a costruire quell’inquietante edificio della memoria che si perde nella fluttuazione dei giorni.
Tutto il racconto della saga familiare della Patuzzi ruota inevitabilmente intorno alla Storia. Nelle intenzioni della donna giovane, che si ritira in una piccola dimora di campagna per scrivere l’avventurosa storia dello zio Ghislain Balthasar, c’è la volontà di documentare il passaggio epocale di tre generazioni della sua famiglia.
La memoria familiare diventa memoria storica e la giovane narratrice finisce per perdersi affascinata nei documenti generazionali che consulta per scrivere la storia della sua famiglia.
Tutto assume il colore del ricordo. In ogni pagina, che l’autrice scrive, la memoria diventa una magnifica ossessione narrativa che riconduce gli eventi alla casa madre della Storia.
«E se la memoria –continua a raccontare la giovane protagonista che si interroga– avesse un filo simile alla bava dei ragni? Allora, dopo le piogge estive si stenderebbe tra le foglie, gli arbusti e i cespugli, nei sottoboschi, nei giardini o nei terrazzi e là, dove prima c’era un buio confuso, comparirebbe una traccia luccicante intrecciata a mille altri labirinti».
La memoria è un paesaggio metafisico a cui si approda da ogni direzione con la consapevolezza di perdersi. Così come in un labirinto si vaga nelle sue stanze senza spazio e senza tempo. Tutti gli eventi che sembrano misteriosi così risucchiati nella spirale di un racconto che cerca il suo baricentro epocale in una fotografia scura, ma allo stesso tempo nitida. Le immagini del presente, ma anche quelle del passato, vagano fluttuanti nell’edificio della memoria, destinate a lasciare nel tempo dell’eternità tracce del tutto che scorre. Questa storia è un atto di fiducia nella memoria che non disperde i frutti concreti del pensiero.