Un poème en prose tra memoria e grande stile, di Gualberto Alvino
In questo poème en prose, o monologo salmodiante alla Jahier ‒ Mamma ricordi, Lecce, Manni, 2013, pp. 166, € 15,00 ‒, in cui l’essenzialità lirica fa aggio sulle altrettanto tenui che svianti istanze diegetiche (di primo impatto si ha netta l’impressione che si parta da grumi poetici per poi scioglierli in oratio soluta: sicché il marchio romanzo campeggiante in copertina, del quale l’Autore sarà perlomeno correo, non può che suonare tra sardonico e blasfemo), Claudio Giovanardi, linguista di vaglia nato poeta, investe tutta la propria versatilità tecnica e culturale.
La sfida è a dir nulla impegnativa: rivitalizzare ‒ non per ricerca d’acronia o inattualità, a norma bufaliniana, e anzi presentandolo come moneta corrente ‒ il linguaggio della tradizione curiale e letteraria con intero il suo carico di materiali non pure eloquenti e preziosissimi, ma edonistici e ornamentali, sempre puntando a supremi tassi di poeticità. Siano le inversioni: «dove mio padre più non posava», «sul viscido dorso dell’umida serpe» (coppia di senarî dattilici), «se torrentello guadavi o ramacce evitavi» (in rima), «ghignante risino», «ostica pendola», «scura capanna», «bianchi capelli», «rosse gualdrappe», «salvifiche lenti», ecc.
Sia il lessico selettivo, provocatoriamente aristocratico, ricco di latinismi crudi e accusati: sfiondola, gracillimo, sparve, silente, vittore, (aria) abbruscata, abbluate (detto di mani), assiso, verzura, lontanava, ingressava, perlunghi, rumegando, biondola (luce), clamavamo (stornelli), accipriati, sconcagnati, nutricati, survive, s’invarigolano, gloggano, primum («fu lì che primum rovellai»), verba («questo universo sì pieno di verba»).
Sia il participio presente con valore verbale («accorrenti da te»), la posposizione del possessivo («biechi contorni dell’anima mia») e la gran messe d’apocopi vocaliche facoltative: «spender sudore», «Quand’entran in acqua due giovani donne» (altra coppia di senarî dattilici), «stringon d’assedio», «squadernavan paradisi», «Quante furon le donne», «assumon sembianze».
Scommessa stravinta.
A levigare ulteriormente la superficie scrittoria, accentuando giocoforza la rarefazione d’un dettato già privo dei nessi logico-esplicativi proprî della prosa-prosa, la raffinatezza della testura fonica (cfr. le frequenti allitterazioni e paronomasie: «ruvidi orridi», «pezzi di spazi», «lo sfanno di affanni») e anzitutto la presenza massiccia di serie versali sapientemente architettate.
Solo qualche esempio. Senarî: «mi balla nel cuore, mi gronda nell’anima»; «la casa giallina a imposte di fuoco»; settenarî: «rotolavano insulti sventolavano preci», «se riflette va bene, se racconta è un disastro», «sembran quasi un ospizio ove tutto conguaglia e survive a fatica»; ottonarî: «risorgeva il detto antico, la vicenda poco chiara, la disdetta di un destino che voleva ricchi alcuni con i meriti di altri», «Che valeva gabellare quegli slalom tra sgabelli»; novenarî: «È ferma sta sola orgogliosa. Sicura che il tempo rapace non toglie quel fiotto di biondo», «e srotola stille di forza nei giovani cuori affannati», «Le scuse pei tagli di luce che offendono gli occhi malati» (con preposizione articolata sintetica a fini mensurali); decasillabi: «sono fiori a corolla sgambati, sono il giorno che dissi “è per te”»; «diffidiamo di sguardi sospetti mentre il viso sorride leggero», «e ostinate fraseggiano piano e al tuo grido non sanno che dire» (si noti che lo stesso titolo, replicato infinite volte come una sorta d’ossessivo sostiene Pereira, è un adonio).
Ma si badi ‒ questo il punto di forza ‒, petrarchismo e monoglottia sono solo apparenti. Vuoi perché non vi è frase, non parola in cui Giovanardi non faccia vibrare la propria energica autoironia (il testo è punteggiato di sapidi inserti metalinguistici: oltre al già citato «se riflette va bene, se racconta è un disastro», «Mi dà ritmo quest’ansia di frasi ad effetto», «L’anarchia regna sovrana in queste povere pagine», «Mi piace leggermi e questo mi basta. Scrivo ogni pagina come fosse la prima a chiudere il cerchio del sogno») e ironia (basti il caso di «io mi illudo (Sgroi [il linguista Salvatore Claudio] trascrivi l’errore) che queste parole…» e quello, degno d’un Gadda, di «seni insigni»), vuoi per la carica espressivistica che caratterizza la singolare operazione: ciò che invera il «cozzo dell’aulico col prosaico» di montaliana memoria. Macchie di parlato: «non se ne saprà più nulla di lui», «N’importa»; aferesi vocaliche: «sta» ‘questa’; dialettalismi e regionalismi: «zinnoni», «cuccà», «chiappe» (non mancano brani dialogici totalmente dialettali: «Chi cazz’era zi’ Peppe, e dimmelo Arfò», «“Ghe dae l’osso signora?”»); abbreviature ludiche: «ciemme» ‘centimetri’; prefissati neologici con stra-: «straperta», «stratersa», «strabagna».
Questa la scommessa di Giovanardi: toccare i vertici dell’autenticità («Avevo dentro di me un grumo emotivo legato a un momento particolare, legato alla malattia di mia madre anziana. Ho sentito che quello era il momento di fare i conti con me stesso», dichiara l’Autore in un’intervista) col massimo della letterarietà e del grande stile.
Sia l’aggettivazione, s’è visto, non meno copiosa che sceltissima, nonché l’enfasi insistita fino a punte francamente melodrammatiche: «ridammi la luce o padre» (Giovanardi suole omettere la virgola prima e dopo i vocativi ‒ «Mamma ricordi», «mamma capisci», «Tiepolo vieni a vedere», «Che fame ricordi» ‒ non certo per épater, che sarebbe violenza dappoco, ma per non spezzare il flusso tonale, vero fulcro dell’opera, cui coopera la partizione in blocchi o lasse; per lo stesso motivo la punteggiatura è volentieri abolita: «Una luce due luci tre luci una spenta una accesa una fioca», «Medius mise mano al coltello scrollò dal cappello le gronde di pioggia si sommerse nel mezzo dei due»).