Claudio Menni, Gardo Mongardo

17-07-2007

Quando James Bond ha la forza di prenderle, di Francesco Zardo

Fra i lettori di queste pagine c’è da immaginarsi che ci sia chi non ne può più di Melissa P. e delle sue discendenti – e magari chi non ha gradito tout court la Melissa criminale, e le sue perversioni bloghettare. E anche chi è stufo, sì, di sesso e violenza copia e incolla, di cannibali e postcannibali, di romanzi che, da Lara Cardella in poi, alla fine hanno il sapore – bene che vada – di un integratore dietetico. Insomma, ci sarà chi desidera leggere, ogni tanto, un trascinante e prepotente romanzo italiano fatto in casa, da uno scrittore che senza troppe vie di mezzo decida di raccontare una storia e di farsi lui per primo travolgere dal racconto – al di sopra dell’intenzione editoriale di travolgere o meno i lettori.
Gardo Mongardo potrebbe diventare il vostro eroe.
La generosità con cui Menni dalla Romagna spedisce il protagonista del romanzo nei quattro angoli del mondo – da Parigi agli Stati Uniti all’America Latina – a caccia prima di una salvezza (dai lungomari di Rimini, soprattutto) e poi di un diamante, è una generosità di tratto in grado di evocare qualche Tropico millenario, qualche equivoco rabelaisiano e qualche pagina di “Lancio Story”: tutto insieme, però, tutto mischiato nella zigzagante striscia peripatetica di questo James Bond romagnolo malgré soi. Occhio a non confondersi, però: Gardo Mongardo è uno 007 senza licenze di sorta, con nessuna destrezza d’armi, una conoscenza quasi nulla delle lingue e solitamente vittima più che tombeur delle sue conquiste femminili.
In questo vitale romanzo, Gardo prende botte e batoste almeno ogni cinque pagine. Lo spinge avanti la sua enorme forza d’incassare, una incosciente grandezza che è anche la chiave della scrittura di Menni, e che trascina il lettore appresso a un personaggio fra i più autentici della recente narrativa italiana. La saggezza, poi, del lavoro editoriale fatto su questo Gardo Mongardone ha contenuto, senza disperderla, la dirompenza originaria che – davvero concepita per lettori pù che pazienti – aveva sconcertato diverse case editrici al punto che l’autore decise, poco più di un anno fa, di pubblicarlo per conto suo: Gardo Mongardo alla fine del mondo era il titolo dell’opera che recava sul colophon un laconico “stampato in proprio” dopo quasi duecento pagine di un volume che sfidava il lettore e il libraio e il sistema editoriale: sistema editoriale che non aveva altra scelta se non rimuoverlo.
Ha rimediato Manni, serio e intraprendente editore pugliese la cui assonanza con il cognome dell’autore è pura coincidenza: con pazienza ha sistemato la punteggiatura del tono originario (troppo esuberante anche quella) e diverse altre cose da rendere se non altro più mansueto un testo che addomesticare del tutto sarebbe stato un peccato.
Ora c’è da augurarsi che venga premiato dai lettori, questo quarantatreenne romagnolo di Casola che non pubblicava dalla fine del secolo scorso, dopo gli esordi con Caneporco e Uomo di Carta, entrambi per i tipi di Moby Dick, e un fantomatico Poetica della pasta barilla, forse inedito visto che compare nelle sue biografie ma in nessun catalogo.
Il Mongardo resta per palati forti: nelle sue peripezie, fra le altre cose, Gardo si ritrova a dover estrarre il diamante agognato da un cadavere: «Come morti io avevo visto solo mia nonnna», leggiamo. «Mi siedo in poltrona – si legge ancora – Dove l’avrà cacciato? Dietro i rubinetti, sopra la cornice dei quadri. Lo cerco dappertutto». Il lettore anche non smaliziato a questo punto avrà capito dov’è il diamante. E non è che un casto assaggio delle cento torbide e allegre esplosioni mongardesche.
Chi volesse sapere qualcosa in più di Menni, e ascoltare uno scrittore dai modi squisiti e dalle vedute originali, può sintonizzarsi giovedì pomeriggio su Radiotre: l’autore sarà ospite di Fahrenheit.