Claudio Menni, Gardo Mongardo

16-08-2007
Gardo Mongardo, un Ulisse dei nostri tempi, di Antonio Celano
 
Qualcuno ha scritto che questo libro è antilirico. Non è vero: non solo è lirico, ma pure epico; anche se è l’epica di un Ulisse, la poetica a volte un po’ cupa di un uomo solo.
Gardo Mongardo è un Odisseo lanciato ormai oltre le Colonne d’Ercole, che cambia pelle al cambiar dei contesti (ricco tra i ricchi, povero tra i poveri, umano tra gli umani, mostro con i mostri; e poi ancora clochard a Parigi, ridotto alla nuda vita in Brasile, brillante sulla Croisette di Cannes, abile giocatore, spiantato peone e molto altro ancora): un accorto flâneur che rovista e abbandona i cul-de-sac della vita brusco e disilluso. Perché, in fondo, quest’uomo ha delle regole: stordirsi e lasciarsi andare – naufragare più volte, addirittura – ma perdersi mai, ché nel suo io restano fermi alcuni punti, pochi ma forti come acciaio. Dunque deriva solo apparente (perché è la corrente della vita che porta via il recalcitrante, non il suo volontario abbandono), e invece presenza e fedeltà a se stesso, a un io che sa resistere come il migliore degli amici nei momenti peggiori. Ulisse, del resto, non era così? E l’Odissea non è ancor oggi l’accattivante sceneggiatura di un viaggio tra isole abitate da maghe ammaliatrici che tutto trasformano in sesso e in porci, ma pure di finte Venezie e autobus transamazzonici e angoli di Cuba dove ci si può imbattere in un amore intenso e brevissimo? Non è il romanzato multiverso popolato da sparuti ciclopi, da divinità umanizzate (amici o nemici, certo), da mille altri naufraghi che per la strada s’acquistano e si perdono? E questi attracchi, al tempo della globalizzazione cos’altro sono se non il mondo di un’impossibile medietà, montagne russe che possono ribaltarsi soltanto nel senso verticale delle condizioni materiali di vita, cielo e fango?
E dire che un sussulto, all’inizio, l’ho avuto, quasi un moto di indignazione: ché mi era parso – ecco, ci risiamo, mi sono detto – il solito libro del cinicone che sembra abbia tanto vissuto e invece non ha visto una mazza, e che gioca pure a far lo sbandato. Insomma, se un libro ha uno stile bello e accattivante ma si mette a infilare cliché (la discesa agli inferi nell’ospedale militare dello Smipar di Pisa? scontatissima, pensavo) la tentazione di defenestrarlo è sempre forte. Perché non è accaduto, allora? Perché, innanzitutto, in questo benedetto libro non c’è solo uno stile scostante e lacerato, irridente eppure singhiozzante. C’è pure qualcosa che profonde dalle parole, e il significante, per una volta, finalmente condensa il significato: ovvero un atteggiamento umano di empatia verso il mondo e le persone, e i bisogni del protagonista e quelli altrui. Attraverso ciò il libro si rilancia: come nella pagina dell’artista di circo incontrato a Las Vegas, il cliché sa sciogliersi nella riedizione del topos letterario, nella sua reinvenzione e rivisitazione: arte/amore/malattia/morte (e a Venezia, seppure una Venezia delocalizzata e desiderosa di radici amorose, una riproduzione farlocca eppure più struggente di quella vera, che alla fine si scopre più farlocca di quella finta).
Insomma, se quella sorta di carta d’identità del protagonista (Ulisse prima della guerra, Ulisse che si finge pazzo, Ulisse che deve partire giocato dagli eventi) corrispondente alla lunga introduzione all’inizio infastidisce, subito dopo viene il dubbio che sia giusto così: che il libro sia tanto più epico e lirico quanto continuamente può opporsi a quelle prime battute, che avrebbero ritagliato un personaggio e una vita altrimenti provinciale e statica e buzzurra. Un eroe che all’improvviso, scaraventato via dalla sua Itaca per le strade del mondo, si fa apolide e a flessibilità totale, senza nemmeno la speranza di una Penelope che sappia aspettarlo paziente; perché intanto pure l’amore s’è infranto in un sesso da paraninfo e anche le madri - l’amore incondizionato delle madri, è morto. E dunque sesso, solitudine, alcol. E dappertutto il dio danaro e del bisogno. Un dio vetero-testamentario duro e feroce che ti costringe a fuggire di continuo tra gli eletti e i diseredati della terra.
Non resta, allora, forse, che un’ultima utopia,: una nuova Itaca lontana, più lontana possibile, sia dagli occidenti a capitalismo avanzato sia dalle alternative anticapitaliste e antioccidentali (ormai altrettanto bollite e flosce). Un mondo radicalmente periferico dove sia possibile perdere le residue incrostazioni e ridursi all’essenziale, dove sia possibile fare dono delle cose ritenute fino a quel momento più preziose. Ogni valore-passaporto che assicuri il ritorno, ogni ritenzione di merce-feci (si sarebbe detto in altra congerie culturale, ma qui il recupero del concetto ha nel romanzo un suo senso stringente). Mongardo, ovviamente, per questo baratto sceglie una donna e in cambio il suo sorriso. E la sceglie forse perché nel suo nome si nasconde un’altra meta, un altro continente verso cui farsi scivolare dalla corrente.