Claudio Menni, Gardo Mongardo

25-09-2007

Fuga da Bologna nel mondo, di Alfio Siracusano

L’uomo, qualsiasi uomo, non è solo l’esito del capriccio dei suoi geni, ma è anche il frutto dei tempi nei quali si forma. Dei quali ascolta le voci, sconta i fallimenti, accetta o respinge le speranze, le illusioni, piangendo ne irride le utopie, nei casi migliori ne denuncia le magagne. Spesso ne viene travolto, e la deriva lo porta via. Con in più, quando la sorte è particolarmente avversa, il peso della coscienza: che sa e non si oppone, sente ma non comprende, capisce e finge di non capire. Fa come il giunco che si piega alla corrente, ma lo fa per debolezza di resa, senza calcolo di riemersione, sapendo che non si rialzerà più, come pago dell’amara dulcedo che trova nel degrado al quale si è condannato.
Il Gardo protagonista di questo romanzo (o meglio, lungo, lunghissimo racconto) di Claudio Menni appartiene a questa tipologia di uomini del nostro tempo: zavorra ai margini della corrente, fiore di forma mostruosa ad onta del suo metro e ottanta di normalità biologica, che vive e misura la vita coi parametri dell’alcool e del sesso, in perenne ricerca di come ingurgitare birra o rhum e di come espellere sperma dovunque l’occasione gli fornisca un ricettacolo più o meno disponibile.
La trama della vita gli si fa deriva narrativa: da una Bologna periferica e degradata (dove un incontro casuale con la sua ex donna si è risolto nel solito congiungimento carnale cui è seguito uno sgarro agli attuali amici della donna, consistente nella dispersione di una bella quantità di droga) si trova costretto a fuggire per evitare le rappresaglie della legge, visto che la donna minaccia di accusarlo di stupro, e quelle degli spacciatori che certo andrebbero per le spicce. Ed è fuga nel vasto mondo, che per una serie imprevedibile di casi lo sbalestra a Parigi, a Rio, a Bahia, nelle favelas messicane, e poi a New York e a Cannes e a Cuba, e poi…
Mentre lo accompagna l’ossessiva presenza dell’alcool, la ricerca continua del sesso, il dilatarsi di un’umanità non meno di lui immersa nel nulla di una provvisorietà fatta di espedienti per rimediare la dose momentanea di piacere fisico: sia la sbornia dell’istante che dura o l’orgasmo continuato di organi genitali che si cercano, si incontrano, si riempiono gli uni degli altri, in una fisicità dell’essere che va anche oltre la naturalità, per farsi abbrutimento consapevole. Che è appunto la coscienza di cui si diceva sopra. Ma è anche spietata lucidità di giudizio, che smonta le apparenze della ricchezza patinata sotto cui brulica la verminosa cancrena del vizio non meno di quelle della miseria che si nutre non più che di sesso (offerto, esibito, venduto), solo di rado disponibile a un ripensamento di sé, a una qualche volontà di superamento che sia anche fuoriuscita.
Rimane, a testimonianza di ciò che abbiamo chiamato coscienza, la vibrazione di uno stile che la disperazione, forse, impreziosisce, come straniando il mefitico da se stesso. «E Susanne insiste, nonostante il buridone, che a zio Paperone cado bene, e io taccio che spero che non sia finocchio, che se mano nel pacco il vecchio ponendomi, una carriera nel cinema o un biglietto da diecimila pali giurasse per marcare con lui spruzzi e saliva, sarebbe immorale dire no». Ed è così quasi dovunque: giochi di variazioni, fiorire di metafore, poesia di inversioni che separa le parole-segno dalla corposità oscena del raccontato, come nella trasparenza metaforica di quella perla che a lungo Gardo si porta appresso nascosta nel buco dell’ano e che alla fine, non riuscendo a venderla, donerà a una ragazzina nei pressi di Guantanamo.
Dove finisce il viaggio e si spegne la prospettiva delle cose: «Mi lascio galleggiare bocconi con la faccia sotto. Poi mi giro a braccia e a gambe larghe con il petto al sole. Chiudo gli occhi e galleggio così. Mentre il sole a picco uccide il passato, la corrente lentamente mi trascina a valle».