Cosa spinge il protagonista di questo romanzo picaresco e alcolico con cui si inaugura una promettente collana di narrativa dell’editore Manni a girare il mondo, tra Puglia, Parigi, Rio, Cannes, Las Vegas, Avana? La cronica stanchezza di “ascoltare se stesso”? Il modello è forse troppo alto e irraggiungibile: il Céline del Viaggio al termine della notte rivisto a passo di noir (c’è una scienza che si svolge proprio nella periferia parigina). Difficile remixare anche solo in parte la rapinosa
petit musique della sua prosa. Certo Claudio Menni, nato nel 1964 (al Sud? la nota non lo svela), e ora residente nella provincia di Ravenna, romanziere esordiente e uomo dai mille mestieri (netturbino, bracciante, messo comunale, bagnino), non può avere quella disperazione lì (il confortevole mondo degli iperconsumi non la consente più) né può artificialmente riprodurre quella contingenza storica (le guerre, il colonialismo, i regimi totalitari). Però nella sua cieca estenuazione e soprattutto nella sua voglia inconsapevole di fallire, di rotolare, di perdere (e perdersi), ritroviamo un elemento di autenticità. Il protagonista – «livido, ferrigno, silenzioso, annebbiato e saldo nella penombra» – attraversa il romanzo con la sua disperata e stralunata vitalità. Le sue “avventure” richiamano quelle del Guizzardi dei romanzi di Celati, calato però in un mondo fumettistico, da B-movie polizziotesco, tra improbabili spacciatori, risse, prigioni e fughe in paesi esotici. La lingua per dirlo è eccessiva, a volte non addomesticata e vicina al parlato, in certe pagine debordante in altre improvvisamente povera fino all’afasia, ma anche in ciò conferma una vocazione genuina. Qualche spezzatura di troppo («Camminavo, e non ero John Malcovich»), che ci può stare in un’opera d’esordio. Poi, curiosamente, proprio nelle pagine finali, ambientate a Cuba, dove «brulicano le facce dei negri», una sorprendente normalizzazione espressiva: paesaggi e persone solo descritti in modo banale, solo illuminati da una lunga dietro le nuvole che si sfilacciano. Le pagine iniziali, sintatticamente scomposte, assai movimentate, lasciavano sperare di più. E così quelle – vivacissime – dedicate alla formazione del protagonista: la scuola, l’università (tra facce disegnate da Altan e soldati «rasati come uova sode, le orecchie ornavano le fisionomie come manici d’anfore antiche»). Poi il tono prevalente sembra essere semplicemente quello dell’
hard-boiled, del romanzo di genere: «Per noleggiare una macchina sganciamo di cauzione dollaroni duemila. Mi scoccia tanto che il grano l’ho tirato fuori io». Infine qualche riflesso violentemente misogino (le donne, tutte “strafighe” o “figone”, come in un film dei Vanzina, sembrano tutte irrealmente disponibili) che fa da contraltare a certo romanticismo dolente e scoperto. Se il «mondo è molle» e «l’aria è gomma» l’unica cosa giusta resta comunque saperlo abitare con spavalda allegria, fingendo di prenderlo sul serio.
05/02/2008 - Il Domani
Sancho Panza ibridato con Don Chisciotte, di Sergio Rotino
Nel prendere mano a questo libro, la raccomandazione è di non farsi spaventare da quella specie di ottovolante dei tempi verbali che ne occupa la prima ventina di pagine. Lì è il prologo necessario a far partire Gardo Mongardo, riesordio del romagnolo Claudio Menni. Sono pagine necessarie a presentare Gardo, il personaggio principale, a dire com’è prima che la storia abbia veramente inizio e come non sarà mai più. Il succo del romanzo sta dopo, nel tappeto rutilante de “Le avventure di Gardo Mongardo”, capitolo unico, monstre, monoblocco in cui il personaggio lentamente si scioglie dalla contrattura interiore/esteriore che lo attanaglia inizialmente facendogli pian piano acquistare qualcosa di molto vicino a una coscienza di sé, ovvero qualcosa che prima non aveva. Perché prima era un postadolescente, un uomo sulla trentina confinato in una mentalità da ragazzetto; prima era una specie di folle rinchiuso in un atteggiamento compulsivo-ossessivo, tutto sesso e alcol e droga, tutto gesti istintuali e spigolosi. Il prologo ce lo spiega così, con un montaggio frenetico, aprendo al pretesto narrativo. Ovvero una fuga via dall’Italia per evitarsi galera e possibili ritorsioni violente dopo un atto inconsulto, che getta il nostro per il e nel mondo. Attenzione però, Gardo Mongardo non è il racconto di un balordo che scappa da Bologna, dalle sue strade e da certi ritmi provinciali. Almeno, non solo. È prima di tutto una sorta di diario formativo, l’apprendistato alla vita, a comprendersi, a vedersi finalmente. Così il suo girare dalla Francia al Brasile, a New York, al Messico prima di terminare in quella specie di cul-de-sac rigenerativo che appare Cuba, detta le tappe di un percorso formativo particolare. Menni dipinge il suo personaggio con penna sicura e una lingua percuttiva che permette di tratteggiarlo come agito da quanto gli gira attorno. E Gardo in effetti guarda, poi vede, ma quasi mai si abbandona al rovello interiore del pensiero. Tutto opera su di lui in presa diretta, tutto diventa esperienza ma non rimpianto. In realtà le sue avventure sono l’epica in minore di un antieroe puro, che si rifà in parte a Sancho Panza – ibridato con Don Chisciotte – e molto ha a che fare con l’acquisizione e la perdita di nuove figure parentelari, in sostituzione di altre assenti o lontane. Sopra tutte quella, falstaffiana e pantagruelica, di Theos Metha, greco, puttaniere, trafficone che la vita vuole praticamente possederla intera, insomma poter dire l’ultima parola su ogni cosa, maestro ma anche padre per Gardo. Ma ogni incontro avvicina questo personaggio a un affinamento della percezione di sé, al renderlo più che uomo, “umano”. Davvero, uno dei migliori personaggi della nostra nuova narrativa e uno dei romanzi da conservare nella memoria, insieme al nome del suo autore, per il futuro.