Ancora una volta Claudio Morandini ci stupisce, con un romanzo che si schiude come una matrioska. Il suo terzo romanzo, Rapsodia su un solo tema (Manni) è definito un libro che unisce tentativi di saggio, pagine di conversazioni e di diario, verbali di interrogatori, trascrizioni da un pamphlet settecentesco. Il tutto per raccontare di musicisti che parlano di altri musicisti che raccontano di altri musicisti che immaginano la vita di altri musicisti ancora. Rapsodia su un solo tema (Manni) è soprattutto l'opera di uno straordinario scrittore, che sono orgogliosa di presentare qui sul magazine di Sick girl.
Mmm. Vediamo. Un insegnante di lettere cinquantenne in un liceo di provincia – ma così suona crepuscolare. Uno scrittore di nicchia – e forse è ancora peggio. Cittadino e marito esemplare – ma così finisco nell’epitaffio.
Avevo in mente quella storia da un mucchio di anni – quella di Aurora, la contessina visitata dalle anime del Purgatorio, come in un’esasperazione grottesca dei diari di Eugenie von der Leyen… Ma solo quando ho immaginato di far rivivere quella vicenda attraverso gli occhi di Nora, l’insegnante di religione che sente di stare perdendo la fede, ho capito di avere trovato la cifra giusta. È un racconto di fantasmi che unisce brividi infantili e scetticismo, e si fonda su un paradosso: dov’è finito Dio, in tutto questo?
“Le larve” è fatto di nebbia, campi, boschi, paludi, terra… In mezzo, un palazzo enorme, abitato da personaggi sfuggenti e in perenne conflitto. È un paesaggio mentale, una geografia immaginaria – il palazzo, isolato in un nulla brumoso che garantisce immunità, è la mente del protagonista che si fa spazio e può ricordare di volta in volta i castellacci del vecchio romanzo gotico o del marchese de Sade, la villa signorile del “Messaggero d’amore” di Losey, quella del “Racconto d’autunno” di Landolfi, o certe incisioni di Piranesi o di Escher…
Non lasciatevi ingannare dal titolo, dal sottotitolo e dalla copertina: fanno parte del gioco, nel senso che preludono a un trattato che in realtà è un romanzo. Un trattato di musicologia, per giunta con implicazioni storiche. Però si tratta di un depistaggio gentile, la cifra costante del libro è la leggerezza, il colore persistente è una specie di ironia malinconica, o di malinconia ironica. La musica ha un ruolo determinante, è vero, e le pagine dedicate all’analisi di composizioni immaginarie sono numerose: ma a contare in “Rapsodia” soprattutto sono i musicisti, le vite dei personaggi insomma, i loro sentimenti, le loro giornate, le aspirazioni, le sofferenze, le illusioni… Il tutto osservato da più sguardi – su tutti prevalgono quello lieve e anche un tantino fatuo di Ethan Prescott, quello più disincantato e amaro di Rafail Dvoinikov, ma da un certo punto anche quello divertito e sconcertato del protagonista del pamphlet settecentesco sul Secolo ventesimo.
Dvoinikov è un uomo che tutto sommato ha saputo mantenersi integro, come uomo e come artista, anche scendendo a compromessi. È un compositore che non è riuscito a nascondere del tutto le tracce della sua personalità musicale nelle opere più celebrative – Prescott ama questa prepotenza di personalità, insegue queste tracce di modernità, questo affiorare dell’originalità nella palude del conformismo e dell’accademismo.
Ma è anche un isolato, un esule in casa propria, il quale per combattere noia e paura si dà a un dongiovannismo compulsivo.
La sua musica (sua di Dvoinikov, intendo) è esemplificata dalla composizione che dà anche titolo al romanzo: un ossimoro, perché la rapsodia è una forma che combina più temi, mentre questa è fatta di un solo tema, che si fa ascoltare una sola volta, all’inizio, e poi si fa desiderare invano fino alla fine. Questo senso di attesa di qualcosa che non verrà più, e che forse è solo frutto di un sogno, è solo una fantasticheria, una pietosa insania – questo senso di perdita via via più intenso è probabilmente una delle chiavi del romanzo.
Il giovane americano Ethan Prescott è alla ricerca prima di tutto di un maestro, uno di quelli su cui si è formato, che ha scoperto da sé, e che ha coltivato come un piccolo culto personale. Lo vuole scoprire, e lo vuole far scoprire al mondo. In questo c’è probabilmente anche un po’ di vanità, o di presunzione: Prescott sente di essere la persona adatta a restituire fama a un compositore dimenticato, e spera in un po’ di gratitudine. C’è comunque soprattutto la necessità di Prescott di un riferimento solido, di un maestro, di una sorta di padre artistico. Non troverà in Dvoinikov quello che sperava di trovare – Dvoinikov è sfuggente, elusivo, e sembra giocare a smentire le attese dell’americano, a smontare le sue tesi, talvolta è deludente, insomma non è un modello, è un uomo, per giunta parecchio complesso.
Ma è vero quello che dici, Prescott si perde. La sua è una deriva non programmata, dietro a un solo tema ascoltato una volta all’inizio, e poi inseguito invano, appunto. Intanto è un allontanamento da Carl Thalberg, il suo compagno, dalle sue attenzioni ansiose. Ethan ama Carl, ma è probabilmente spaventato dal futuro accanto a un Carl sempre più vecchio. C’è poi un’inquietudine di fondo in Ethan Prescott, un’insoddisfazione che lo spinge a partire, sobbarcandosi ore e ore di viaggio, poi a tornare, a ripartire, e così via. C’è la scoperta di sofferenze, pulsioni e dubbi di cui prima non ha mai sospettato la portata. L’incontro con Polina, la giovane assistente che sta sfiorendo accanto a Dvoinikov, complicherà e dilaterà questa inquietudine.
Ma non è solo questo. Ethan è messo in crisi da Dvoinikov. Il primo, esponente brillante di una società libera fondata sulle leggi del mercato, scopre (glielo fa scoprire il vecchio russo, con sarcasmo) che ciò che si vuole da lui non è poi tanto diverso da quello che volevano i fautori del realismo socialista: un’arte addomesticata, piacevole, rassicurante, celebrativa, riconoscibile. Broadway non è così lontana dai ballettoni del Kirov, per dire, almeno quanto a risultati. Per Prescott anche questo (lo scoprirsi assoggettato ai condizionamenti altrui) è un trauma.
Sono un appassionato di musica come può esserlo un dilettante. Colleziono musiche del Novecento – e mi fermo a quel secolo, perché non ho abbastanza spazio in casa. In passato ho suonato, seguito lezioni, per qualche anno, anche di jazz, ma senza quella determinazione che sarebbe stata necessaria per superare gli scogli tecnici. Come Prescott, preferivo perdere tempo a improvvisare, piuttosto che dedicarmi allo studio di scale e arpeggi. Più avanti, ho ripreso gli studi della musica all’università,con un approccio storico e filologico: e qualcosa è rimasto, nel romanzo, di quegli studi lontani (l’analisi delle forme e delle strutture, la tesi di laurea su “Stravinsky trascrittore e revisore di se stesso”…).
Ma anche le improvvisazioni di funk sperimentale nei “Commandmentz” mi hanno fornito spunti e suggestioni. Soprattutto perché continuo a pensare alla scrittura di un romanzo come all’equivalente di un lavoro di missaggio e montaggio di tante sequenze liberamente improvvisate.
La musica – la musica pura, diciamo, quella libera dalle contaminazioni con la parola o le altre espressioni – è un linguaggio che parla solo di se stesso. In questo senso è libero: non comunica davvero niente altro che combinazioni e modulazioni di suoni. Siamo noi a sovrapporre a quei suoni la nostra percezione, e a confondere la musica con l’ascolto della musica. Su questo anche Prescott e Dvoinikov concordano.
Certo l’arte, e la musica in particolare, sembra concedere spazi segreti di libertà, quando là fuori le cose si mettono male. Diventa un piccolo rifugio nascosto, clandestino, che preserva dagli orrori e dalle miserie del mondo. La musica garantisce un distacco dalla mediocrità, e sembra indicare una strada non troppo frequentata verso la ricerca di una bellezza intatta.
Ora, ho scelto la musica un po’ per comodità, visto che la conoscevo già a sufficienza, un po’ perché mi pareva che facesse risaltare meglio la varietà dei condizionamenti sull’espressione artistica.
Quanto al mondo di chi vive di e attorno alla musica, è davvero quel frenetico formicaio di persone, quell’intrico di gelosie, ripicche, orgogli, puntigli, fissazioni che emerge dal romanzo, soprattutto nelle pagine “americane”, come mi hanno confermato alcuni lettori musicisti di professione, o come racconta il saggio (questo sì vero, e ottimamente scritto) di Alex Ross “Il resto è rumore”, da poco tradotto per Bompiani. In fondo la questione è sempre quella: artisti e potere, declinati secondo tutte le possibili variazioni. Tutte le comunità circoscritte e specializzate sono così.
Questa volta ci sono anche le note a piè di pagina, a simulare anche graficamente lo stile di un saggio! Ma quelle note, a dire la verità, sono soprattutto il controcanto ironico di Ethan, o esprimono curiosità estemporanee, intenzioni da realizzare…
Accumulo pagine per anni, accatasto spunti, poi aspetto che si creino sottili legami tra tanti elementi diversi, e che dal caos degli inizi emerga un senso, un ordine. Lascio che personaggi lontani si incontrino, o che dall’attrito tra pagine incompatibili venga fuori una specie di terzo suono. Nel caso di “Rapsodia”, la varietà di stili e tipologie, e anche quel che di incompiuto che si sente sin dall’inizio, quel mettere insieme elementi non conclusi hanno una spiegazione – ma, visto che la soluzione a questa incompiutezza arriverà solo alla fine, preferirei non dichiararla qui.
Man mano che procedevo nella stesura, mi affezionavo all’idea di combinare le parti come le bamboline in una matrioska: storie che contengono storie che contengono altre storie ecc. Questo progetto si è realizzato solo in parte – lo sento io, ancora, sottotraccia, ma non è detto che lo avvertano anche i lettori.
Anche i precedenti romanzi sono nati così, senza sistematicità, e maturati attraverso un lavoro paziente di concatenamento. Caso e controllo, controllo e caso: mi piace procedere in questo modo, e mi piace moltissimo sentire gli scarti, le ellissi, gli attriti che si creano tra una pagina e l’altra, e allo stesso tempo fare in modo che si senta nonostante tutto un senso, un criterio, una direzione, un equilibrio.
Accompagnerò “Rapsodia” per le strade del mondo, o almeno d’Italia, perché su un libro così bisogna essere rassicuranti, garantire leggerezza e godibilità, questo genere di cose. E nel frattempo torno a limare il prossimo, una storia picaresca e improbabile che potrei presentare dicendo che, se “Rapsodia” è il mio romanzo russo, quello sarà il mio romanzo americano. Intanto, quando mi gira butto giù racconti, che possono sempre tornare utili, e che rappresentano una piacevole vacanza dalle fatiche del romanzo.
E ora puoi salutarci come farebbe Dvoinikov?
“Vorrei essere stato meno arrendevole” potrebbe dire Dvoinikov con un sospiro.
Oppure, con una risata: “Sono note, solo note! Ho scritto note, non meditazioni, che Dio me ne scampi!”
O, incupendosi con un certo gusto melodrammatico: “La musica più bella di questo mondo, a che serve davvero? Non sa risuscitare i morti innocenti, non lava le colpe, non sa nemmeno dare sollievo se non a chi già è sollevato. A che serve la musica? A che serve?”.
O, con un mezzo sorriso: “La vera libertà di cui godo ora è di non dover più scrivere. Un po’ di tè?”