Taranto, il romanzo della crisi, di Mario Desiati
Una realtà come Taranto ha bisogno di chiavi di lettura. Non si può vivere e cercare di cambiare questa città senza una coscienza. E la coscienza di una terra a volte spetta alla letteratura. Taranto ha diversi scrittori, molti di valore, ma ha trovato colui che può essere definito il suo “autore”. Si chiama Cosimo Argentina, 45 anni, con quattro romanzi dalle alterne fortune alle spalle è oggi approdato al suo lavoro più completo, quello dove esce fuori una voce sonante e urticante, unica nel panorama italiano.
Argentina vive in Brianza da alcuni anni, emigrato come tantissimi tarantini, ma ancora selvaggiamente legato alla sua città con le unghie, quelle unghie che graffiano sulle pareti della sua storia recente dove non ci sono eroi, ma solo antieroi. Antieroe è Dànilo Colombia, scritto proprio così con l’accento sulla A, in omaggio all’entomologo Dànilo Mainardi, il protagonista delle vicende di maschio adulto solitario (Manni). Il romanzo è diviso in cinque parti: la vita militare, la vita in fabbrica, la vita d’apprendistato, la vita sbagliata, la vita fallita. Non è difficile vedere in questi frammenti le sfaccettature più tipiche di questa città, quella militare, quella industriale, quella piccolo borghese e quella votata all’autolesionismo. La storia della città è infatti perfettamente intessuta negli esiti esistenziali di Colombia, un uomo che continua a guardarsi indietro come se costantemente sull’orlo di un precipizio. Qualunque tarantino almeno una volta nella vita si è imbattuto in un Colombia, piccolo borghese disposto a tutto pur di sopravvivere nei suoi spettri e nei suoi vizi in una città mai così fumosa e nera come la Taranto raccontata da Argentina.
Colombia è un uomo che attraversa oltre vent’anni di storia di questa città dai tempi delle caserme militari alla fine degli anni Settanta, sino all’approdo nelle aule di giustizia negli anni Novanta. Un periodo nel quale Colombia baratta i suoi pochi valori per diventare un legale senza scrupoli e senza titoli, un tipo che si fa dire da uno dei tanti equivoci uomini di queste pagine “Fatti chiamare avvocato, tanto il tribunale sta pieno di ’sti strunz che hanno preso ’sto cazzo di patrocinio provvisorio cent’anni fa e ancora mo’ fanno pratiche di cento, duecento milioni…”.
È un romanzo crudele, dove non si risparmia nessuno degli aspetti più cupi di Taranto. La cronaca di quegli anni entra con prepotenza e illumina attraverso il racconto letterario alcune delle cause della crisi odierna. C’è la corruzione, c’è la mala politica, c’è la piccola e spietata mafia tarantina della fine degli anni Ottanta, ci sono indimenticabili personaggi dai tratti facilmente riconoscibili nella vita pubblica tra i due mari. E poi c’è una Taranto che odora di diossina e pesce marcio. C’è la Taranto dell’Ilva, che nel romanzo si chiama ancora Italsider con i suoi colori e con il suo carico di morte e insicurezza.
Taranto resta sotto traccia, è un virus cronico che si incista nella pelle. Dànilo Colombia a pag. 136 dopo aver conseguito la laurea a Bari torna a Taranto e va a vivere in un rivoltante e caotico caseggiato di via Giusti. “Il festival dei panni stesi… festival degli odori: pesce fritto, melanzane, impanate, sugo con la carne, frittate, zuppe di verdure, broccoli con la pasta, torte di mele, pesce arrosto, gamberi, agnello, spezie.” Eppure nonostante questi odori e questa aria Colombia dopo anni di assenza da Taranto apre la finestra e respira a pieni polmoni. Avverte in quel momento che nonostante tutti gli odori del mondo, quello di città resta unico: “Stavo a Taranto e per saperlo dovevo solo respirare.”
Colombia sopravvive pieno di ossessioni, quella che più lo tormenta è l’altro sesso. Le donne del libro sono tutte memorabili, costellate di difetti, ma tutte umanissime e vittime della follia e dell’egoismo del maschio adulto solitario: l’angelica Sara dalle gonne d’adolescente, l’ossuta Rotunno, un’anonima impiegata con cui Colombia sbriga rapidissimi e squallidi atti sessuali nelle prime pagine, la sessantenne Maria, una masochista dal naso all’insù con cui Colombia consuma una violentissima relazione che lentamente conduce all’annientamento, e poi Armida, prototipo dell’avvocato tarantino donna, anzi “femmina, non bella, ma femmina”, come scrive Argentina, “Lei e l’avvocato avrebbero legato come una sanguisuga a una vena”. Infine arriverà Elettra, una cliente sdentata ma dal corpo tonico di ballerina e i seni “come cassate siciliane”. In ognuna di loro Colombia affonda le sue incertezze e la sua solitudine, quella che lo porta a vedere ossessivamente un film dove il protagonista è un cane da foresta e da slitta. Kuma è il maschio adulto solitario che lascia il branco per cercare la sua vera natura sul bordo dei crepacci. Colombia è solo e fa della sua solitudine la bandiera, un vessillo che lo porta a farneticare, a seguire la vaneggiante legge dell’arrangiarsi a ogni costo, ciò che lo porta a dialogare con figure immaginarie, quelle che lui chiama gli Invisibili, sorta di Lari di un tempio domestico che si disfa giorno dopo giorno.
Ed è forse la disperata solitudine il tema più potente in questo romanzo, davvero il sentimento più diffuso nella gente di Taranto, quello che in questi anni le ha fatto credere di essere più sola che mai.