Il punto G del romanzo, di Filippo la Porta
Prendete il Céline dei primi romanzi, quella autobiografia tutta gridata, picaresca, piena di odio, e poi mescolatelo con un gergo da noir autarchico dentro un paesaggio tipicamente saraceno. Avrete un’immagine abbastanza verosimile di Maschio adulto solitario di Cosimo Argentina. Si comincia nella caserma Picador e si continua attraverso molte avventure nella città vecchia di Taranto, letamaio a cielo aperto pieno di tossici e pregiudicati, abitato prevalentemente dagli «sconfitti degli anni Sessanta e Settanta». Ed effettivamente il giovane protagonista, Dànilo Colombia, è una classica figura di perdente sul piano sociale ed esistenziale. La sua vita rotola in giù, con cieca ostinazione, in un cuore di tenebra. Mi ha fatto venire in mente che per il Sud del mondo l’esistenza stessa è vista come fallimento (si pensi a don Chisciotte) ma si tratta di un fallimento avvincente, che genera esperienza e sempre nuovi, imprevedibili sviluppi dell’azione. La prosa di Argentina è vivace e iperespressiva: gli ordini del capitano erano «insugati» con certe frasi finali, mentre un altro commilitone è «incartato nella pelle devastata dall’acne» e «foderato nel suo sudore». Ed è poi cellula ritmica della pagina quel «Fa’ che…» usato dai personaggi come intercalare, quasi equivalente del più diffuso «tipo che…», rispetto a cui suona di più come invito a immaginare qualcosa. A volte però ho notato un’incertezza di tono, lì dove la lingua debordante, ad alta temperatura, si intreccia con un gergo corrivo da hard-boiled che fa un po’ sottoromanzo comico-erotico, dove ad esempio si dice che tutte le donne sono raggiungibili salvo quelle “blindate”, con due storie: «Se ti accanisci con una che già ha soldi e sesso sei fottuto». Dànilo, vagabondo anarchico e misantropo, coltiva però sogni miti e assai piccolo-borghesi: «Insieme ci saremmo cercati una pensioncina e lì avremmo tirato a campare di amore e pane e passione…». Il romanzo serve a sfatare alcuni luoghi comuni sui meridionali. Ad esempio parlando dei racconti di Andrea Di Consoli (lucano) mi è capitato di scrivere che i suoi vitelloni sono del tutto uguali ai loro equivalenti bergamaschi, tranne su un punto: non vedono l’ora di fuggire dai loro luoghi. No, stavolta il protagonista, a parte una disastrosa trasferta in una fabbrica del Nord, dichiara di voler restare lì, in quella Gomorra odorosa di naftalina, in quell’universo mortifero, tra incaprettamenti e il fuoco cancerogeno della siderurgia. Nel libro nessuna Arcadia del meridione, nessuna contemplazione estetizzante del mondo arcaico. Quel profumo di maggio che a Taranto hanno gli abitanti, e pure i cani, è infatti «un misto di fiori di campo e asfalto caldo». E forse la cosa più memorabile qui è proprio Taranto, la città dove in una scena da diluvio universale quando piove molto, i poliziotti non escono dalle loro auto e ognuno può fare quello che vuole. A un certo punto Dànilo pensa: «Cercavo di prendere in giro la fame e la vita fingendomi sazio e felice». In questa frase c’è tutta l’ambiguità e la saggezza di una “filosofia” antica: in fondo vivere è questa sublime arte della finzione, dove però per recitare una qualsiasi parte – come quella della felicità – occorre averla già dentro di sé.