Cosimo Argentina, Maschio adulto solitario

24-05-2008
La Taranto borghese di Argentina, città tossica e “pulp”, di Enzo Mansueto
 
I romanzi di Flavia Piccinni o Gianluca Antonacci, la finzione noir di De Cataldo, l’inchiesta narrativa di Alessandro Leogrande o Ornella Bellocci, sono solo alcune delle vie alla scrittura di Taranto che vanno accavallandosi in questo estremo lembo della contemporaneità.
Vie diverse, nella pratica della narrazione e negli esiti poetici, ma accomunabili almeno nell’incattivirsi di un giudizio, quello sulla città, incline ad una rappresentazione impietosa, localmente iperrealistica e insieme allegoricamente emblematica di un quadro nazionale, nella quale prevalgono di gran lunga gli scenari degradati.
Il nuovo romanzo di Cosimo Argentina non sfugge a questa tendenza, anzi la conferma con dosi massicce di negatività e disincanto. Ancora una volta il protagonista della sua narrazione è la città di Taranto e ancora una volta, come nelle vicende calcistiche rimembrate in Cuore di cuoio, è attraverso la ricostruzione memoriale del passato prossimo cittadino che vanno montando lo sdegno – quello viscerale di un figlio istruito, giammai quello ideologico dell’intellettuale engagé – e la narrazione empatica. Romanzo di formazione con tanto di giovane protagonista a ingombrare l’attenzione del lettore sin dal titolo, Dànilo Colombia,che conosciamo ai suoi 18 anni, già maschio adulto, e solitario, appunto.
Cinque capitoli, per una discesa nel cuore di tenebra, attraverso cinque quadri di vita ventennale, crudi come le catene di smontaggio di un mattatoio in un nullificante moto apparente verso altri luoghi che riconduce ossessivamente al punto di partenza: la leva (Bari), la fabbrica (il Nord), la laurea in giurisprudenza (ancora Bari), la vita da avvocato truffaldino (in una irrimediabile Taranto caotica), il fallimento (con l’assurda scena finale al Nord). Dovunque vada, qualunque cosa faccia, Dànilo è destinato ad essere divorato dalle metastasi mefitiche, bestiali, tossiche, sanguinarie della sua città. Una dannazione verghiana, deformata orrendamente da espressioni cannibalesche e disumane: “Così come il polipo è tra gli scogli che deve stare io era a Taranto che dovevo vivere.” Bestie ovunque, in questo romanzo, cani, tigri, varani, per una umanità bestializzata (come in Uomini e cani di Omar Di Monopoli), non fosse per le agognate, memorabili presenze femminili.
La narrazione caricata di questo Argentina, a tratti – vedi l’exploit finale – appare un po’ compiaciuta di certi modi pulp, che competono, nel gusto per l’assurdo apocalittico e in alcune circoscritte similitudini, con le narrazioni Andrea Piva (l’avvocatuccio in malaffare che si dà un tono con la propria semivuota cartella di pelle… il caso clinico finale… ) e dell’ultimo Mario Desiati. Ma forse, fuori di una autoptica cronaca, questa città non merita altro stile. Oramai.