Cosimo Argentina, Maschio adulto solitario

14-06-2008
I manovali della vita violenta, di Sergio Pent

Marsilio, Sironi, Avagliano, Manni: il percorso di Cosimo Argentina è distribuito – in cinque romanzi – tra questi quattro marchi dignitosi, ma non certo appartenenti alle “majors” editoriali. Ora, che si pubblichi a ritmo sempre più convulso e con intasamenti primaverili da incubo, è un dato di fatto che continua a non trovare riscontri tra i lettori, legati alle loro pigre abitudini rassicuranti o alle promozioni partigiane di Fabio Fazio. Ma che nessun grosso – o robusto – editore abbia mai preso in considerazione le rabbiose geografie narrative tarantine – nel senso di Taranto, città d’origine del Nostro, non di Quentin – di Cosimo Argentina, questo suscita più di un lecito dubbio.
Due titoli come Il cadetto e Cuore di cuoio avrebbero fatto la fortuna di qualunque scrittore, con le giuste promozioni. E questo Maschio adulto solitario, edito dai coraggiosi artigiani di Manni, questo romanzo, ecco, suscita interrogativi sempre più leciti su certe grosse scelte editoriali. Il Sud di Argentina non è il Sud di Saviano, ma la sostanza del disagio è identica. Saviano denuncia apertamente il Male, Argentina lo attraversa in una quotidianità spicciola talmente degradata e cancrenosa da farci desiderare una realtà alternativa, un tuffo in una fiaba rassicurante di Rodari.
I protagonisti dei libri di Argentina sono spesso anime solitarie a confronto con le asperità della vita. Ma questo Dànilo Colombia coetaneo dell’autore – classe 1963 – che dalle esperienze deliranti del servizio militare passa attraverso tutti i cunicoli più maleodoranti del malessere del Sud e arriva a diventare avvocato della malavita locale per poi essere sacrificato come un cristo partito col piede sbagliato, ci fa sentire da vicino il disagio di un contesto sociale in cui nessuno, ma proprio nessuno prova a costruirsi una vita normale.
Il linguaggio labirintico, efficace, catarroso di Argentina si colloca ai piani bassi di questa odissea delirante, con comprimari da film horror – ufficiali allucinati, capi reparto bavosi, avvocati avidi e lussuriosi – denominati quasi tutti Corvo o Corva. Una metafora avvolgente delle atmosfere funeree che attraversano la vita di Colombia, a sua volta incapace di reagire a un destino pieno di delusioni, dal suicidio inspiegabile del suo grande amore sedicenne, Sara, alla trucida famiglia che lo esclude dopo la morte del padre, a tutto un sottobosco di manovali della vita che lucrano sui suoi smarrimenti in un alternarsi di abusi e violenze da girone infernale. Colombia trova aiuto – guarda caso – solo nel cieco Anselmo, che continua a immaginare per lui un futuro sereno, non potendo vedere le lordure del mondo.
È Taranto, una Taranto fotografata sempre dopo un brutto risveglio, ma potrebbe essere una qualunque landa del nostro Sud o della nostra atavica indifferenza, l’unica ad accomunarci nel nome di nazione. La discesa a rotta di collo di Colombia è un coraggioso atto d’accusa nei confronti di una società che mette all’angolo le individualità, poiché solo la legge del branco vince e predomina. In questa scelta che non è denuncia ma presa di posizione, il romanzo di Argentina è un pugno nello stomaco che non teme conseguenze, ma se ci fossero dovrebbero metterci in allerta.
Sullo stato generale delle cose, in Italia, ma anche – soprattutto – sulla bravura indiscutibile di questo romanziere “da duemila copie” – come si definisce – che è davvero tra i nostri scrittori più dotati e che ci ha regalato uno dei romanzi più riusciti e necessari della stagione. A buon intenditor...