Gli indesiderabili rinchiusi negli spazi d'eccezione, di Rossana De Luca e Maria Rosa Panareo
A destra e a sinistra da sempre il fenomeno immigrazione è stato (è) affrontato attraverso il paradigma dicotomico regolare/clandestino: il primo da “integrare”, il secondo da “respingere” anche con misure eccezionali, perché potenziale criminale e, dopo l’11 settembre, terrorista certo. Non è stato affatto un ministro della destra xenofoba a proporre di sparare sugli scafisti ma un senatore dell’Ulivo, e di fronte alle accuse di “buonismo” il governo di centro-sinistra non ha esitato ad esibire con orgoglio dati e percentuali relativi alle espulsioni, quali prove della sua zelante fermezza contro i clandestini. Sia a destra che a sinistra non si vuole ricordare che gli immigrati regolari di oggi sono stati i “clandestini” di ieri poiché l’irregolarità (la clandestinità) è una costante di tutte le migrazioni ed è fortemente dipendente dal carattere più o meno aperto delle normative che disciplinano i flussi migratori. Com’è ormai risaputo, il modo con cui si affronta questo aspetto della migrazione è un imprescindibile indicatore della capacità delle politiche migratorie di tutelare i diritti fondamentali dei migranti. La logica ispiratrice della politica migratoria europea e dei singoli governi nazionali di destra e di sinistra, invece, è la logica del proibizionismo che propone una gestione dell’immigrazione irregolare in chiave repressiva, segregazionista e razzista e per la quale vietare equivale ad impedire. (…)
(…) Su un punto, però, sono tutti d’accordo qualunque sia la congiuntura, l’entità del dramma, le motivazioni personali: l’unico spazio concesso ai clandestini è quello dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT), ancora oggi impropriamente definiti “centri di accoglienza”, in realtà spazi di raccolta degli “indesiderabili”, degli “scarti umani”; autentici non luoghi nei quali –come direbbe Giorgio Agamben– il bios (ossia l’esistenza socialmente riconosciuta) è ridotto a zoé (vita meramente animale).
Anche su questo aspetto, va rilevata immediatamente l’armonia di vedute della sinistra e della destra italiane. Com’è ormai noto, è la L. 40/98 (detta Turco-Napolitano) che, cassando il previsto articolo 38 (diritto di voto), istituisce invece i CPT (art.12) i quali, con la L. 189/02 (detta Bossi-Fini), saranno rapidamente potenziati, moltiplicati e differenziati –a seconda della tipologia dell’utenza– tra Centri di Permanenza Temporanea e Centri di Identificazione (CdI). Nessuna necessità di distinguo tra le due posizioni politiche. Nessuno, a parte i parlamentari di Rifondazione Comunista, dei Verdi, della sinistra DS che abbia avvertito l’imperativo etico di denunciare questi luoghi come espressione di una pericolosa sospensione del diritto, della semplificazione fittizia dei migranti a non-persone da isolare in spazi di segregazione coatta. “Spazi d’eccezione” in cui non dimorano soggetti portatori di diritti, ma solo, come dice ancora una volta Giorgio Agamben “nude vite prive dell’aura di cittadino e di ogni statuto giuridico”. Non casualmente, infatti, il movimento li ha definiti Lager per esprimere la consapevolezza che se l’istituzione dei campi è stata possibile nel passato e ritorna ad essere possibile anche nelle moderne democrazie, allora è evidente che vi è un difetto di fondo nella cultura giuridico-politica di queste ultime, in cui essi diventano sistema e abitudine: l’eccezione diventa paradigma normale della prassi di governo.
Una eccezionalità che dovrà sempre più far parte del serbatoio semantico e cognitivo di ognuno di noi, sino a diventare normalità: “Così come in ogni città c’è un carcere, una prefettura, una questura, la gente dovrà abituarsi all’idea che ci sia un centro di permanenza”, dichiara il prefetto Anna Maria D’Ascenzo, capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno.
Parallelamente alla proliferazione dei CPT aumenta e si rafforza il fronte della denuncia e della controinformazione da parte di realtà associative e di ricerca circa l’aberrazione giuridica di questi non luoghi, nei quali le garanzie e i diritti umani sono sospesi.
È questo clima che spinge il movimento dei movimenti a lanciare, nell’estate del 2002, la campagna “Né qui né altrove” per la chiusura di tutti i CPT; ed è in occasione della manifestazione del 30 novembre e della successiva visita all’interno del Regina Pacis che emerge quanto era già noto: i CPT, tutti, sono “istituzioni totali” e nelle istituzioni totali, come dice Hannah Arendt “tutto è possibile”. Il Regina Pacis non fa eccezione. Le testimonianze che la delegazione raccoglie durante la visita raggelano coloro che le ascoltano: in seguito alla tentata fuga avvenuta la notte tra il 21 e il 22 novembre, molti dei trattenuti dichiarano di aver subito gravi violenze fisiche e psicologiche oltre che da parte di operatori del Centro, dallo stesso direttore don Cesare Lodeserto e da alcuni Carabinieri in servizio presso la struttura. Accuse pesanti che coinvolgono anche la dimensione religiosa (costrizione ad ingoiare pezzi di carne cruda, di maiale, col manganello durante il ramadan) e che paiono provate dall’esibizione di fasciature, arti ingessati e segni evidenti di ecchimosi e di contusioni su varie parti del corpo. Un gruppo di internati, 17 per l’esattezza, decide di sporgere denuncia. La determinazione e la sensibilità del compagno Dino Frisullo, che faceva parte della delegazione, non sono estranee a questo atto di estremo coraggio. Nonostante il successivo, e presumibilmente non volontario, ritiro delle querele, il magistrato Carolina Elia decide di procedere d’ufficio e di aprire un’indagine. 14 persone, tra cui lo stesso responsabile del Centro, don Cesare Lodeserto, carabinieri e collaboratori, vengono iscritti nel registro degli indagati con le seguenti imputazioni di reato: “violenza privata e per motivi religiosi, eccesso dei mezzi di correzione, lesioni personali gravi e percosse”. In attesa dell’incidente probatorio e per consentire alla magistratura di svolgere gli accertamenti necessari, i 17 ragazzi magrhebini ottengono un permesso di soggiorno per motivi giudiziari che verrà di volta in volta rinnovato in seguito agli sviluppi dell’inchiesta.
La vicenda giudiziaria, per la quale rimandiamo all’appendice e all’apposita sezione del dossier allegato al presente volume, si intreccia con la vicenda umana sulla quale vorremmo spendere, invece, qualche parola ed esprimere alcune riflessioni. Una vicenda che inizia il 23 dicembre: è l’antivigilia di Natale, nessuno vuole dare ospitalità ad un gruppo di ragazzi che ha osato denunciare Carabinieri e “Regina Pacis”. Si apre la spasmodica e difficile ricerca di una degna sistemazione logistica in una città priva di effettive strutture di accoglienza. Bussiamo a molte porte, nessuna pare disposta ad ospitare i “pellegrini”; tra le strutture ricettive cattoliche qualcuna ha il dormitorio impegnato con un presepe: un presepe realmente vivente deve quindi cedere il passo a quello in cartapesta…
Per 15 giorni sarà perciò la sede del Lecce Social Forum ad offrire ospitalità e compagnia ai ragazzi in attesa di una presa in carico istituzionale, ottenuta in seguito alla pressione politica dello stesso LSF.
L’inchiesta fa scandalo e ri-compatta ancora una volta entrambi gli schieramenti: l’immagine del “Regina Pacis” quale simbolo dell’accoglienza e della generosa umanità è difesa strenuamente dalla destra che ne esalta gli “standard di ospitalità elevati” e grida alla calunnia; ma anche dagli esponenti del centro sinistra, che non esitano a definire “esagerate” le denunce del movimento e a riconoscere nel “Regina Pacis” un modello per l’accoglienza. Il settimanale locale “L’ora del Salento” dedica al caso l’intero numero del 7 dicembre 2002 e pubblica all’interno un “Manifesto di solidarietà al Regina Pacis” che raccoglie un lungo elenco di firme appartenenti alle personalità le più significative del mondo politico e culturale salentino: non ultima, anzi seconda, quella dell’avvocato Lorenzo Ria, presidente dell’Amministrazione Provinciale che governa all’ombra dell’Ulivo. Per noi, nessuna meraviglia: all’ombra dell’Ulivo sono nati i CPT.
Altro esito immediato è il potenziamento della censura nei confronti dei media –in particolare di quelli non propriamente allineati alla politica local-global-governativa– per i quali entrare nei CPT diventa praticamente impossibile sebbene non sia mai stato facile. Il 31 gennaio 2003 il Ministro dell’Interno decide, “per una questione di privacy”, di vietare alla stampa di entrare nei CPT e parlare con gli immigrati “trattenuti”. Su questa grave violazione di uno dei principi fondamentali dello stato di diritto –la libertà di stampa e di informazione, sancito dall’art.21 della nostra Costituzione– saranno presentate una serie di interrogazioni, orali e scritte, da parte di alcuni parlamentari della Margherita (Nando Dalla Chiesa) e di Rifondazione Comunista (Giovanni Russo Spena e Graziella Mascia).
Questa la ricostruzione dei fatti (…) che nasce prioritariamente dall’esigenza di mantenere alta l’attenzione sulla battaglia intrapresa dai movimenti sociali per l’abolizione dei CPT, esemplari paradigmi, questi ultimi, del modo di concepire l’esistenza (non solo dei migranti) nella modernità (ma non solo). Una battaglia che si configura come lotta contro le istituzioni totali e che riguarda tutti, migranti e autoctoni, poiché la minaccia sempre più diffusa e capillare di luoghi di segregazione per gli inassimilabili è uno dei perni delle politiche globali basate sul “pensiero unico”.