Praga e l'odore del vento, di Salvatore F. Lattarulo
Il lettore non prenda per buono il titolo dell’ultima raccolta in versi di Cristanziano Serricchio, Il vento di Praga (Manni, pp. 103, euro 10). L’intestazione forestiera e lo scorcio del monumentale Ponte Carlo in copertina sanno, una volta richiuso il libro, di depistaggio, ingenuo e sornione insieme. Sì, ovvio, all’interno c’è piazza Venceslao, dove la primavera di Dubcek, ignara pioniera di quella araba, fiorì in mezzo alla neve sgelando i cuori al fuoco della libertà. C’è anche l’uomo-insetto Kafka, contrassegno della mattanza del popolo ebraico, spiaccicato nel suo ghetto di dolore. E c’è poi l’eco di una celebre aria del Don Giovanni di Mozart, a lungo sedotto dalla capitale boema. Ma, messe da parte queste tessere, che compongono la prima sezione («Il ponte in fiamme»), se ne ricava che il poeta garganico abbevera la sua musa solo per poco nelle acque della Moldava.
La sorgente della scrittura resta il respiro profondo del mare dauno, risacca di stagioni perdute, sponda di memorie arcane, deriva di miti sommersi, gorgo di affetti recisi. Eccone una spia: «Dove sei il mare/ nell’anima è una carezza/ e la mano cerca/ la storia dell’altra». Lemmi del tipo randa, onda, orizzonte, cielo, spuma, bufera, faro, riva, sabbia, alga, sciabordio, nubi, vela, remi, approdo, barca sono indizi precisi e concordanti a supporto della tesi che è il vento mediterraneo e non quello mitteleuropeo che sospinge la navicella dell’ingegno poetico di Serricchio a correre, parafrasando con lieve infedeltà Dante, le acque consuete. Del resto una bella domenica mattina, dopo aver pranzato insieme, affacciato sul lungomare del golfo della sua Manfredonia (dove risiede), l’autore, nato novant'anni fa a Monte Sant'Angelo, confessava con un filo di voce e l’occhio umido che del mare lo colpiscono la linea dell’orizzonte, il suono, i colori, le vele e i gabbiani, «che danno il senso della vita». Ed è appunto dentro questo paesaggio del cuore, piuttosto che tra le guglie della città ceca, che Serricchio cerca ancora la rotta, insegue la prua del tempo. Il suo vento è il maestrale, la tramontana, lo scirocco. E nell’aria gelida della notte affonda la sua pronuncia lancinante e isolata, tra lontananze e attese, naufragi e ormeggi, cadute e slanci. In scia con quella «meditazione dolente e pacata e cantata a mezza voce», di cui a suo tempo scrisse l’indimenticato Mario Sansone.
La vita a poco a poco si sfibra, sfugge («La fine, vedi, è in questa mia/ fredda ala di luce»). L’anima solitaria del vecchio gabbiano sanguina. Come quella della piccola lavandaia che cerca all’inizio riscatto a una vita di sofferenze nelle nozze con il mare. Una soave fiaba in versi, che è tra le cose più riuscite di Serricchio. Dove la sua composta disciplina classica cede al dire amico, al «parlare buono». Eccolo qui il poeta dal volto umano. Titano umile e appartato, simile all’alberello d’aranci che spunta nell’orticello della storia in apertura di volume. Compagno ideale delle due araucarie spiate dalla finestra di casa insieme agli sbadigli della vita che rinasce con l’alba. Alle soglie dei novant’anni, l’Orfeo pugliese tenta ancora un ulteriore bilancio, un ennesimo caparbio approdo, come denuncia la lirica finale: «Ho passato in rassegna /vecchie barche da pesca».