Non Nome. Si intitola così il nuovo libro di Cristiano Poletti, giovane poeta nato a Treviglio nel 1976. Uscito da poco nella collana “Occasioni” di Manni (editore leccese tra i più importanti e conosciuti sulla scena nazionale), il libro giunge a tre anni di distanza dal precedente Mari diversi (Book Editore, 2004), e rappresenta insieme un approdo e un nuovo punto di partenza per l’autore. Un approdo in quanto la raccolta suggella una ricerca poetica, tematicamente orientata all’interrogazione della memoria e stilisticamente tesa a sviluppare una musicalità interna al dettato, durata anni. Un nuovo punto di partenza perché Non Nome porta in sé il presagio del futuro “dire” poetico di Poletti. Ma addentriamoci un po’ di più nelle trame del libro, per individuarne il nucleo magmatico.
La poesia come ricerca – difficoltosa, zoppicante, spesso “in negativo” – dei nomi che sono immagini delle cose. Da qui, da questa definizione cercata e trovata nell’esperienza della scrittura, nasce il titolo del libro: Non Nome. Dove “Nome” (niente è secondario in poesia) è scritto con la prima lettera maiuscola: come un assoluto. La poesia di Poletti è piena di assoluti (“Che importa / se volevo ogni assoluto / e perle di rancore trovavo?”): Eterno, Poesia, Amore, Nessuno, Immortale, Impossibile (tutti, si noti ancora, scritti in maiuscolo). Questi assoluti non sono altro, in ultima analisi, che possibili nomi o attributi dell’Assoluto, di Dio. E infatti il procedere del libro è anche un procedere verso il nome di Dio. L’ultima poesia, bellissima, si intitola non a caso Preghiera in fine e chiude così, magnificamente, la raccolta: “Se neglette e confuse / tremano ossa e voce / nel cemento / se il monte muto / fissa il moto del mare / sai eterno / l’errare per la bellezza / che di Dio porta / amorosamente il nome”.
Fra gli assoluti cercati dall’autore c’è anche la Poesia. E qui scendiamo (o saliamo) al piano del linguaggio, provando a individuare dentro il presente (che è già passato) fissato sulla carta, le linee future del fare poetico di Poletti. Ciò che rende vivo, inquieto, mobile il libro è lo scontro – spesso all’interno di uno stesso verso – fra due linguaggi: quello della poesia (con la “p” minuscola), che traduce l’interiorità più sincera e immediata dell’autore; e quello della Poesia, che filtra l’interiorità e la media attraverso il ricorso alla tradizione letteraria, ricorrendo a un dettato “alto” e spesso a termini che spiccano nel verso per la loro ricchezza desueta. Questo scontro fra “poesia” e “Poesia”, fra linguaggio comune e immediata traduzione del sentire, e linguaggio della tradizione che quello stesso sentire media, può essere interpretato in diversi modi e letto su più piani. Ne prendiamo uno, per noi essenziale, e che rende Non Nome un libro non solo bello, ma decisivo in quanto di passaggio. Lo scontro dei due linguaggi, il loro cozzare a volte, traduce (come sempre nella poesia migliore) uno scontro tutto interno al poeta. Da un lato la volontà di aderire, umanamente e linguisticamente, al proprio dettato interiore, al fluire delle proprie emozioni; dall’altro lato la paura a farlo, il timore di spingersi troppo in là sulla strada del sentire, di guardarsi e di lasciarsi guardare con una trasparenza che spaventa perché non prevede corazze: ecco allora che la Poesia, il ricorso alla Tradizione, diventa uno schermo, una protezione, una maschera che difende dallo sguardo proprio e altrui su se stessi, dallo sguardo sulla e dall’espressione della propria verità, con la “v” minuscola. Minima ma irrinunciabile, unica. Terribile e bellissima. La propria verità di uomo. La sfida futura della poesia di Cristiano Poletti è allora qui: abbandonarsi al proprio sentire, abbassare le difese, cantare finalmente “l’amore in parole povere” (riprendendo il titolo di una delle sezioni di Non Nome). Una sfida che richiede coraggio. Ma che promette un premio unico, il più bello per un poeta: trovare e far sentire la propria “voce”.