Cristina Alziati, Le "res durae" d'una fortiniana, di Massimo Raffaeli
È raro imbattersi in un poeta di cui, ad apertura di libro, si avverta la necessità; ed è raro in un’opera di poesia riconoscere oggi una testimoniata e suffragata verità (parola espulsa dal lessico corrente in quanto temeraria, impronunciabile, ovvero figlia di un contenzioso ideologico che si dà per istinto).
Dunque può essere una sorpresa leggere il primo libro di Cristina Alziati, A compimento, quarantenne milanese da anni residente a Berlino che aveva tuttavia esordito nel 1992 con una breve silloge, in un volume collettivo, presentata da Franco Fortini; il quale così si congedava dalla sua nota partecipe: “Di fronte a questi magri versi decisionali, ci si chiede come sia possibile un futuro poetico di Cristina Alziati se non accetti di retrocedere alla policromia dell’esperienza, compresi i rischi di dulcedine che la accompagnano”.
Immutati i riferimenti (Hölderlin, Brecht, Benjamin, Ernst Bloch, oltre ovviamente a Fortini), così come è costante la fisionomia linguistico-stilistica (versi incisi in una scansione secca, prevalenza della sintassi sulla prosodia, vibrazioni che danno per figure metonimiche e mai metaforiche), il quindicennio poetico di Cristina Alziati non ha affatto conosciuto retrocessioni o concessioni al calore dell’esperienza; semmai il gelo, la consistenza petrosa del suo versificare, ha guadagnato invece un approfondimento, un più marcato spessore referenziale e uno spazio ulteriore di risonanza. Le res durae del presente, la condizione permanente di guerra, il silenzio che precede e succede alla normalità dello sfruttamento e della strage ne disegnano (non per sua scelta, ma per la prolungata calamità dei tempi) il contesto a tutt’oggi invariabile.
E in questo i versi di Una preghiera sembrano dialogare con le parole del maestro e rispondere al suo antico rilievo: “I magri versi decisionali / altro non ho saputo portare. / Guardo altissimo del falco, immobile / nel vento il volo. // Se a volte credo di cogliere la tregua / ove volge in certezza un dolore, e resistere / si annuncia opera per la storia intera, / se lembi di pace mi appaiono / da favolosi nuvoli distesi / le grandi ombre delle Apuane, soccorrimi / muto sapere nel pianto, margine / acuto di grazia, che un fiore / la ruggine dei rovi trafiggendo / ostende”.
In una densa prefazione, Lendini nota tutta la distanza o meglio la dissonanza rispetto al clima poetico e più generalmente ideologico cui appartengono i coetanei della Alziati, riferendosi in specie a un testo emblematico della raccolta, Sui primi disegni di mia figlia, dove appunto si legge di una madre che osserva, forse per la prima volta, sua figlia disegnare; ed è lì che Cristina Alziati intuisce in controluce la sola possibile verità, in quelle tenere, perché inopinate, “immagini di redenzione, / di doverosissimo comunismo”.