Poesia saziata mia sposa, di Lucianna Argentino
In tutti i poeti c’è una profonda unione tra la loro vita e la poesia e non intendo, naturalmente una coincidenza “concreta”, visibile, ma direi un’intima e misteriosa interconnessione. Eppure in qualche poeta accade che questa coincidenza risalga alla superficie e si renda manifesta quasi come un profumo, una vibrazione. Tra questi poeti c’è Dale Zaccaria perché per lei la poesia è l’amore stesso per la vita, è il canto dell’amore. Tutto ciò si può sentire con forza attraversando le pagine di “Non per l’amore a dire” (Manni editori, 2006). C’è un ritmo battente, incalzante in queste poesie; i versi, spesso brevi, due sole parole, dicono dell’incalzare, del premere dei sentimenti e delle emozioni da cui scaturiscono. Dicono dell’affanno che spezza il respiro, che fa stare l’anima in apnea, anima che ogni tanto riemerge, prende aria e si placa, si quieta prima di rituffarsi di nuovo nella sua inquietudine. Inquietudine non subita, ma vissuta come slancio creativo, come ragione stessa della creazione e prezioso humus di cui la poesia si nutre.
Il filo conduttore dell’intera raccolta è l’amore, anzi è “non per l’amore a dire”, dunque non l’amore detto ma l’amore vissuto sulla pelle, nella carne con una tale intensità da sfogare nella scrittura che di questo amore si fa testimonianza. Testimonianza che passa attraverso due parole che ricorrono spesso in queste poesie e che sono “cuore” e “occhi”. E non poteva essere altrimenti visto che cuore e occhi sono gli organi principali per conoscere il mondo, ai quali, in uno stadio più infantile, si sostituiscono mani e labbra. I bambini, infatti, toccano, afferrano, rompono, mettono in bocca le cose per sentire come e di che sono fatte. Nella poesia di Dale Zaccaria, una poesia peraltro molto istintiva, a cuore e occhi si aggiungono mani e labbra per amare, per vedere, per toccare e abbracciare, per assaggiare, per raccontare, non solo l’essere amato, il suo corpo, ma la vita stessa:
“ a scriverti verrò io,/ con il mio volto laccato/ di ringhiera”, ci dice con una bella metafora. Come pure: “La ragazza aveva vent’anni/ denti di cicala/ mani chiuse ad imbrogliare”. Quella di Dale Zaccaria è, infatti, una poesia ricca di metafore, di immagini che sembrano attingere da un terreno onirico, come se scrivesse quando è più indifesa. Per lei le parole, tuttavia, non sono un muro protettivo e nemmeno consolatorie anche se l’impressione forte che si ha leggendo le sue poesie è che lei scriva quando la ferita è ancora aperta. Direi allora che per lei le parole hanno lo stesso misterioso e magico potere che avevano le favole che ci raccontavano da bambini, che pure se a lieto fine, non impedivano che poi si sognasse di streghe e di matrigne.
Da notare inoltre che molto forte e marcata è l’impronta femminile nella sua formazione umana e poetica, non a caso in questo libro c’è una poesia dedicata alla nonna, una in cui viene nominata la madre vista, mi sembra, sia come una bussola per mantenere l’orientamento verso quell’essere donna e femmina che Dale ama profondamente nella vita e nella poesia, sia come l’essere cercato così che la poesia diventa pure il filo per ricucire lo “strappo” della nascita, della separazione come condizione “crudelmente naturale” del nostro essere nel mondo. E ancora, la poesia che chiude il libro si apre con l’immagine di una “gattara”, forse presa a simbolo di colei che si prende cura e di quel dono gratuito di sé che è caratteristica tipicamente femminile. Poesia sentita e vissuta anch’essa come un’entità femminile se in un incipit molto suggestivo recita: “Poesia saziata mia sposa”. “Non per l’amore a dire” è, tuttavia, dedicata a un uomo, a un poeta, alla sua memoria. Quell’uomo, quel poeta è Paul Celan. Come a dire che poi la poesia è poesia, nella pienezza della sua espressione, senza sesso, senza tempo. Solo la magia del linguaggio che in tutti i tempi è stata e sarà in grado di giungere alle profondità del nostro essere e farlo vibrare d’armonia.