Dan Lungu, Il paradiso delle galline

01-12-2010

Olocausto romeno, di Claudio Canal

Bucarest, dicembre 1989, in pochi giorni si avvinghiano una rivoluzione e un colpo di Stato. Se prima l’una e poi l’altro, non è ancora chiaro. Il risultato è il crollo di un sistema che stava in piedi da più di quarant’anni. Nei due decenni successivi vanno in scena tutti i cerimoniali acquisiti dalla lavorazione della memoria: gesti di purificazione-lustrazione della classe politica e non solo, istituzione di Commissioni ufficiali per l’analisi della dittatura comunista romena o per  lo studio dell’olocausto in Romania, il Consiglio Nazionale per lo studio degli Archivi della Securitate, polemiche feroci sui manuali scolastici  di storia, film che rivangano situazioni e protagonisti, libri che discutono o rivitalizzano memorie. Un eccesso abbastanza caotico di memoria che non annuncia il trionfo della Storia, bensì il declino di un agire collettivo sensato. Il crollo del comunismo proprio questo ha prodotto in giro per il mondo: l’appannamento, se non la decimazione, delle aspirazioni politiche collettive. Ogni frammento della società sprigiona ora la sua particolare memoria, la monumentalizza, la vuole riconosciuta, sacralizzata e risarcita simbolicamente o materialmente. Strumento di guerra guerreggiata o di conflitto politico acuto.
Il quarantenne Filip Florian ha pubblicato nel 2005 in Romania il romanzo Dita mignole [traduzione di Maria Luisa Lombardo, pp.250, € 17,50, Fazi, Roma, 2010] che subito ha varcato i confini. Una strepitosa macchina narrativa che mette in moto ingranaggi ben oliati, ma compositi: è da poco caduto Ceauşescu, il tiranno, e in una cittadina di montagna viene scoperta una fosse comune. Apriti cielo! Sono resti di detenuti politici accoppati dal regime, no, sono resti “archeologici”. Vengono ufficialmente chiamati tecnici argentini esperti di desaparecidos. Si danno da fare sulla fossa militari, poliziotti, archeologi, ex detenuti politici, giornalisti, monaci stralunati. Florian vi dipana attorno storie di geniale bellezza attraverso una scrittura effervescente, ironica e tragica nello steso tempo. Qualcuno ha evocato Hrabal e le sue storie praghesi. Sono d’accordo, ma aggiungerei Aleksandar Tišma, jugoslavo/serbo. La memoria, lo sappiamo, è indisciplinata e in Dita mignole ognuno si nutre della sua. Impossibile una memoria consensuale, integrata in un discorso più o meno generale. In suo luogo una memoria scomposta, accanto e in competizione con un’altra. Come in effetti si fa in Romania e nel resto del mondo.
Grazie compagno Segretario Generale del Partito Comunista Romeno, Presidente della Repubblica Socialista di Romania, Comandante Supremo delle Forze Armate e amatissimo figlio del popolo” apostrofa il conducător uno dei personaggi di Il paradiso delle galline – Falso romanzo di voci e di misteri di Dan Lungu [traduzione di Anita Natascia Bernacchia, Manni, pp. 180, € 16, Lecce, 2010], scrittore e sociologo. Il post comunismo è nel pieno del suo fulgore e della sua inconsistenza, le vite sono sommerse dal racconto delle vite stesse in un’epica della quotidianità e del grottesco che le rende godibilissime a chi le legge e nello stesso tempo allarmanti per la nuda umanità che propongono. Stanno ai bordi dell’esistenza senza monumenti alla memoria in testa, con la sola verità dei loro reciproci racconti, subito dimenticati. La loro temporalità fa a meno del repertorio della memoria, è vissuta ed esaurita dalle parole che si scambiano e che potrebbero durare in eterno. Non so se è questa assenza di cornice storica che rende affascinante e preoccupante il falso romanzo di Lungu. 
Se invece si apre L’altalena del respiro di Herta Müller [traduzione di Margherita Carbonaro, pp. 251, € 18, Feltrinelli, Milano, 2010], pezzo da novanta della odierna letteratura mondiale in quanto neo-Nobel, ci si trovi obbligatoriamente inchiodati su un versante della memoria, quello delle vittime. Si viene quasi abbracciati da una scrittura scarna, impietosa e poetica, costruita su stacchi di frase vertiginosi come una raffica. Herta Müller è una romena della minoranza tedesca, scrive in tedesco e sta a Berlino. Che c’entra con la Romania? si è subito chiesto qualche santone del mondo intellettuale romeno, tornando nazionalisticamente indietro di qualche decennio ( o andando avanti nel futuro?). Il 23 agosto 1944 il dittatore fascista Ian Antonescu viene arrestato e il re, Michele, proclama la fine delle ostilità contro gli anglo-americani. Un 25 luglio e 8 settembre italiani concentrati in un solo giorno. Il 24 agosto la Romania dichiara guerra alla Germania, già alleata. Nei primi giorni del 1945 i Sovietici spingono il governo romeno a mobilitarsi per deportare un certo numero di romeno-tedeschi come “contributo” alla ricostruzione dell’Unione Sovietica. In pratica, lavoro forzato per quasi centomila uomini e donne, secondo la sempre attuale “responsabilità collettiva”. Herta Müller doveva scriverlo con il poeta Oskar Pastior, anch’egli romeno-tedesco, deportato in Unione Sovietica, poi membro dell’Oulipo insieme a Raymond Queneau, Italo Calvino, Georges Perec. Ma è morto prima.
Il lettore non ha scampo. La scarnificata poesia della Müller lo deporta insieme al diciassettenne Leopold Auberg alias Oskar Pastior e con lui fa conoscenza dell’angelo della fame.
Il romanzo si chiude con: “Poi ci fu una specie di lontananza in me”. Romanzo? Narrativa? Fiction? E’ un’offesa usare questi vocaboli? In un certo senso sì. Questo libro affronta di petto un tabù che i veri e propri storici “scientifici” hanno cominciato a indagare da non molto tempo, quello della deportazione/espulsione, dopo la Seconda Guerra Mondiale, delle popolazioni germaniche sparse per l’Europa orientale. Herta Müller lo fa impiegando una scrittura di invenzione che conquista gli animi e che per proprio statuto narrativo non ha bisogno di sottoporsi a verifiche documentarie. Le memorie che queste narrazioni evocano chiedono di essere rivissute imaginisticamente, non di essere spiegate. Si apre il conflitto tra memoria e storia o, meglio, si sovrappongono i piani ed è rimandata al lettore la responsabilità di accedere alle fonti, se crede. Se l'autore del testo "romanzesco" gliene fornisce la traccia. Se no,  letteratura e storia vengono digerite come sinonimi e, nei fatti, lo sono diventate, non solo nella forma cartacea, ma soprattutto in quella visiva. La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo o Schindler’s List di Steven Spielberg ( a sua volta tratto da un romanzo) sono film che fanno parte ormai delle storiografie dei temi che trattano e sono diventati essi stessi fonte documentaria nella storia della memoria che hanno contribuito a costruire, come fatto sociale e storicamente determinato. Inutile scandalizzarsene. Auspicabile, però, dar spazio alla trasparenza.
Uno scrittore e giornalista italiano, Dario Fertilio, ha scritto Musica per lupi [pp. 172, € 15, Marsilio, Venezia, 2010], una durissima e sconvolgente descrizione del più terribile atto carcerario della Romania del dopoguerra, come recita il sottotitolo. Il riferimento è all’esperimento realizzato a Piteşti, una cittadina ad un centinaio di chilometri da Bucarest, tra il 1949 e 1952. Una efferata rieducazione dei detenuti politici condotta da altri detenuti, guidati da Eugen Ţurcanu, già affiliato alla fascista Guardia di Ferro e poi convertito al marxismo-leninismo, appoggiato dalle alte sfere dei servizi di sicurezza. Un insieme di ritualità orgiastiche di tortura che alla fine conducono la vittima a diventare carnefice. La studiosa romena Ruxandra Cesereanu ha reinterpretato questo universo di infernale sadismo come il teatro della punizione suggerito da Foucault, in cui i prigionieri sono attori e spettatori nello stesso tempo e lo spazio carcerario vero ano del mondo che secerne atrocità a fin di bene. Chi supera le prove alla fine è di fatto un posseduto, tanta è stata l’ignominia che ha scoperto in se stesso. Le medesime autorità comuniste fermeranno Ţurcanu e se lo toglieranno dai piedi fucilandolo con i suoi accoliti nel 1954.
Fertilio lascia solo il lettore, che si divora il libro come se fosse un romanzo e come se fosse un testo di storia. La potenza della scrittura esaurisce da sola tutte le possibilità. Le fonti? I documenti? Non meritano neppure l’appendice. In fondo è quello che vogliamo, essere incantati dalle storie, non dalla storia.  
Che è quello che invece aveva tentato di fare a suo tempo Matatias Carp (1904-1953), avvocato ebreo di Bucarest, documentando “in diretta” un pogrom di ebrei avvenuto a Iaşi nel 1941 ad opera di militari e poliziotti romeni, con almeno 13.000 uccisi, e il loro autentico sterminio in Transnistria sotto controllo romeno, tra il 1941 e il ’44. Ora il libro è stato tradotto in francese, Cartea neagra : le livre noir de la destruction des Juifs de Roumanie, 1940-1944 [tradotto e pesantemente annotato da Alexandra Laignel-Levastine, Denoël, Parigi, 2009]. Per scrivere questo Libro Nero Matatias Carp si ingegna a raccogliere, nella clandestinità, testimonianze e documenti, a sollecitare collaborazioni, accertare notizie e informazioni, a scattare fotografie. Mette in piedi una rete ante litteram di cui è parte essenziale la moglie, Ella. Il tutto mentre gli avvenimenti si srotolano davanti ai suoi occhi e da cui può, in un momento o un altro, essere risucchiato e schiacciato. Tra i superstiti della immane e scientifica carneficina in Transnistria i coniugi Carp adotteranno due bambini di due e sei anni. Una storia che si fa memoria vivente. E’ fiducioso Carp, “il 23 agosto 1944 l’Armata Rossa non ha solamente liberato la terra romena, ha anche liberato le anime. Per la prima volta nella storia del paese una promessa di libertà e di democrazia si profila all’orizzonte”. I tre volumi di Cartea Neagra escono tra il 1946 e ’48, con una discreta diffusione. Ma viene presto il tempo del nazional comunismo, le purghe interne al partito, i comunisti romeni i soli e veri antifascisti e antinazisti, la memoria storica costruita da Matatias Carp completamente cestinata. Lui e la sua famiglia se ne andranno in Israele nel 1952, dove Matatias morirà poco dopo. Una nuova edizione di Cartea Neagra verrà pubblicata a Bucarest nel 1996, senza scalfire la smemoratezza ormai acquisita. Delle 110 sinagoghe di Iaşi prima della guerra, ne è rimasta una. Quest’anno ne è cominciato il restauro.