Chiamata di destini intrecciati, di Sergio D’Amaro
L’opera di Angiuli, la storia di Angiuli, non è la semplice storia di un qualunque poeta e scrittore operante al Sud. Sulla sua strada vediamo i molti passi di chi ha scelto con la letteratura un’attestazione di presenza, di impegno, di utopia. Si accorciano le distanze geografiche, le province pugliesi si raccolgono più pronte ad una chiamata di destini paralleli o intrecciati, la memoria si snoda ricca e complice lungo molti anni attraversati. Angiuli appare davvero come un portavoce di proposte e di linguaggi, quelli che erano possibili all’indomani dell’ebbrezza neoavanguardistica e dei ritardi postermetici nel vortice del cambiamento decisivo tra anni Sessanta e Settanta. Nuove mentalità, nuove consapevolezze, nuovi conflitti, e lo stupore, quasi, di ritrovarsi finalmente protagonisti di una scelta di campo. Bodini coniugato con Salvemini, Scotellaro con De Martino, Carlo Levi con la questione ecologica e con l’emergenza territoriale. Un intreccio favoloso e insieme concretissimo, un passato che scatena domande su un presente ferito, un mondo che si confronta drammaticamente con l’accelerazione forsennata degli orologi.
La strada di Angiuli è stata quella di molti altri compagni di generazione. In Angiuli, semmai, c’è stato un dippiù di reattività immaginativa e metamorfica, riuscendo egli a mantenere costantemente in fermento l’ascolto sulle trasformazioni in atto e alta la vigilanza su una dialettica persistenza del passato. In questo lo ha soccorso una intensa verve ironica e un fermo senso religioso della natura, nonché una coscienza febbrile della lingua. Vi è stato lo sforzo di capire e interpretare se stesso alla luce di una realtà costantemente dinamica, continuamente sottratta ai faticosi logos di storici e sociologi. A controcanto – e lo attestano i saggi illuminanti di Gualtiero De Santis, Gigliola De Donato, Daniele M. Pegorari, Ettore Catalano, Pietro Sisto ed Esther Celiberti, riprodotti nel libro Dal basso verso l’alto. Studi sull’opera di Lino Angiuli – corrono gli anni più esaltanti e più duri del dopoguerra, quelli delle ideologie e dei nuovi egoismi, quelli degli appelli disperati alla civiltà e dello sprofondamento, invece, in una ritornata barbarie.
Come Angiuli alcuni degli intellettuali e degli scrittori nel Sud hanno affrontato il problema del superamento del meridionalismo: lo hanno fatto con le riviste, con le collane editoriali, con la ricerca sul campo di un legame tra Italia ed Europa, con la scoperta di tracce e di voci che risarcivano il silenzio tra le generazioni e rinsanguavano il dialogo tra primi ed ultimi. In fondo, molti, come Angiuli, sono rimasti a risolvere il modello di pensiero, incentrato sul dilemma (o ossimoro o tentante endiadi) «la parola l’ulivo» (come suonava il titolo del fortunato libro dell’autore nel lontano 1975), smettendola (pochi per la verità) con i rimpianti e le nostalgie e facendo entrare aria pulita di passato nel motore affaticato del presente, allargando i sud e i nord, gli est e gli ovest ad una circolazione incrociata di culture e di climi. Non a caso le riviste animate da Angiuli (e da altri complici compagni di strada, in primis Raffaele Nigro) si sono intitolate via via “Fragile”, “In oltre”, “Incroci” (quest’ultima tuttora ben viva), aprendosi a scenari sempre più apparentemente incomprensibili, ma proprio per questo bisognosi di accoglienza e di flessibilità mentale.
Oggi Angiuli scrive una poesia ormai bilingue, bilanciata tra italiana e dialetto, porosa e osmotica. Questo perché non esistono più zone maggiori o minori di letteratura, lingue subalterne (come si diceva una volta) o tagliate e lingue egemoni. Il Sud, il dialetto, i contadini, l’emigrazione si sono proiettati in una lente trasfigurata e si sono mondializzati.