Humanitas di Angelillo, di Massimo Raffaelli
Potrebbe sembrare incongruo che un critico musicale digiuno di calcio e anzi dichiaratamente nemico del tifo, come Dario Salvatori, decida di scrivere un libro dedicato a un campione tra i più classici della storia del football e certamente uno dei più raffinati ed eleganti nello stile di gioco. Ma veniamo a sapere dall’introduzione a L’angelo dalla facciasporca, Goal e guai di Valentin Angelillo (Piero Manni, pp. 172, € 16.00) che il libro nasce in effetti dalla passione per il collezionismo e in particolare dal fatto che la figurina di Angelillo, sia nell’album Panini sia nelle collezioni minori di quei primi anni sessanta, risultava sempre tra le introvabili e dunque tra lepiù preziose. Ne fa fede l’inserto iconografico, molto accurato, che è una delle cose migliori di un volume costruito in maniera particolare: non è una biografia in senso stretto e tanto meno una monografia tecnica, ma un reportage che, muovendo dalla personale vicenda del calciatore, racconta alcuni fatti che sono illuminanti circa la cultura popolare e il senso comune negli anni del miracolo economico.
Il ventenne Antonio Valentìn Angelillo arriva in Italia, all’Inter, nell’estate del ’57, insieme con gli altri due «angeli dalla faccia sporca», Humberto Maschio, che va al Bologna, e Omar Sivori, destinato alla Juventus. Insieme formano un trio che Gianni Brera definirà di classe cosmica e che infatti ha distrutto il Brasile vincendo i campionati sudamericani di Lima. Maschio, oriundo pavese di Godiasco, è un classico interno di regia, un virtuoso del tocco e del palleggio ma di gesti essenziali, un ragazzo educato e malinconico che in Italia avrà fortuna solo relativa; Sivori, la cui famiglia è originaria di Cavi di Lavagna, rappresenta viceversa il genio ditirambico, una sorta di espada calcistico capace di giocate inimitabili così come di vistose intemperanze.
Angelillo (suo padre è emigrato in Argentina dalla natìa Potenza) in tutto rappresenta il loro medio proporzionale: ha classe innata, una tale nitidezza di fondamentali per cui alla critica viene subito fatto di associarlo agli insigni del calcio quali Giuseppe Meazza e Alfredo Di Stefano. Per parte sua Angelillo è un ragazzo introverso e laconico, fa fatica ad ambientarsi a Milano, rimpiange Buenos Aires e il suo amato bandoneòn, ma nella stagione seccessiva, 1958-’59, esplode all’improvviso realizzando la bellezza di 33 gol, uno a partita, e attingendo un record tuttora imbattuto. Poi si innamora di una ragazza bresciana, in arte Ilya Lopez, un’artista di varietà separata dal marito, replicando con lei la storia di Fausto Coppi e della cosiddetta Dama Bianca: nonostante il paese si stia modernizzando in fretta, nonostante la progressiva diffusione del benessere e il rapido mutare del costume, l’Italia ipocrita e bigotta non glielo perdona. Lo scandalo è il tramite o la scusa con cui il nuovo allenatore dell’Inter, l’ineffabile Helenio Herrera, lo fa cedere alla Roma. Già a Barcellona il Mago ha messo ai margini Kubala, grande centravanti ungherese, e per i medesimi motivi: egli non ama i giocatori carismatici, la cui classe sopraffina possa entrare in conflitto con gli schemi del gioco collettivo (e scilicet con il dispotismo dell’allenatore: per anni Herrera tenterà, sia pure invano, di estromettere un campione dal profilo astrale come Mariolino Corso); egli diffida di chi giochi sottoritmo e perciò si sottragga alla cadenza frenetica di quello che nel suo italiano maccheronico ha testè battezzato taca la bala, l’antenato dell’attuale pressing.
Quando approda alla Roma, Angelillo ha appena ventiquattro anni ma la sua parabola è già discendente: ha arretrato il proprio raggio d’azione a centrocampo, il suo gioco è sempre di straordinaria caratura ma la squadra, nel complesso, gli è troppo inferiore.
Quattro buoni campionati e la conquista di una Coppa delle Fiere, poi l’inizio della fine con le comparsate nel Lecco, nel Milan di Nereo Rocco addirittura, infine nel Genoa (campionato 1969-’70): chi scrive ha visto giocare Angelillo proprio con la maglia del Genoa, in uno stadio di provincia, e può garantire che se ormai navigava lento in centrocampo tuttavia la sua classe rivelava, a momenti, il passato splendore.
Il libro di Dario Salvatori si ferma qui e interroga, con discrezione, la vicenda di un uomo che si trova ad andare contromano, in ogni senso, negli anni che a tutti sembrano promettere invece un avvenire simile a una marcia trionfale. Il libro non manca, comunque, di alcuni difetti e ingenuità.
Intanto c’è da rilevare l’assenza di una esplicita bibliografia, anche se gli appassionati possono individuare abbastanza facilmente alcune fonti: circa i rapporti con l’allenatore interista, per esempio, va citata senz’altro l’autobiografia herreriana La mia vita – prefazione di Angelo Moratti, Novara, Mondo Sport 1964 –, come la monografia di Gianni Brera Herrera (Longanesi 1966, poi col titolo Herrera e Moratti, prefazione di Gianni Riotta, Limina 1997). Di Brera stesso viene incorporato da pag. 75 a pag. 81 un ritratto del campione senza dare conto della provenienza del testo: per riscontro interno – in quanto vi si parla al passato prossimo di Aleksandr Zavarov che gioca nella Juve fra il 1988 e il ’90 – dovrebbe trattarsi di uno scritto quasi terminale dell’autore
lombardo, mancato nel dicembre del ’92, ma esso testimonia di un estro così felice che meriterebbe un recupero ufficiale; e vi si legge a un certo punto: «Fatemi vedere Antonio Valentìn controllare un pallone bozzuto e poi coordinarsi come per un passo di danza e toccare gentile ad un amico: immancabilmente io avrò incolpevoli reazioni alla Marcel Proust». Da ultimo, va segnalato un erroneo rilievo su H.H., a pag. 164: «Certo non doveva avere fatto una bella impressione a Camilla Cederna, che lo rincorse nel giugno del 1967 dopo un brutto scivolone a Barcellona nella Coppa dei Campioni»; qui, evidentemente, Salvatori confonde i trascorsi blaugrana del Mago con la sconfitta dell’Inter subìta, ad opera del Celtic, il 25 maggio del ’67 a Lisbona.
Resta il ritratto di un individuo, prima che di un fuoriclasse, a lungo offeso e danneggiato da un mito equivoco e persino beffardo.
Tra le fonti ufficiose del volume di Dario Salvatori dovrebbe esserci senz’altro la bellissima intervista che Angelillo ha concesso tempo fa a Roberto Andreotti (Il dio oriundo degli stadi, «Alias», 3 gennaio 2004), dove chiarisce finalmente l’improvvido decorso della sua carriera: «Nel ’62, la sera che partiva la nazionale per il Cile, la Juventus mi chiamò al posto di Sivori per un’amichevole contro l’Ungheria, a Torino. E quella stessa sera mi prelevò dalla Roma per duecento milioni. Solo che l’Inter, vendendomi alla Roma, aveva messo una clausola che per tre anni non potevo andare né alla Fiorentina né al Milan né alla Juventus. Se l’avessi saputo non avrei mai accettato il trasferimento. (…) Poi sono andato al Lecco, una squadra piccola, dove ho fatto bene. L’unico trofeo personale che ho vinto è stato Il calciatore del secolo nel Lecco. Pensi, il Lecco! Poi sono tornato al Milan con Rocco: anche se ho giocato pochissimo, Rocco mi trattava come un uomo al pari degli altri».
Ecco, tutto lascia credere che Antonio Valentìn Angelillo non sia mai venuto meno alla sua humanitas: nel calcio, ora come allora, questa è una cosa più rara di quella sua antica figurina Panini.