Diceversa, il privato dei politici raccontato in double-face
Una singolare iniziativa dell'editore Manni: si tratta di dice/versa, un cofanetto con cinque libriccini che ospita ognuno due racconti di alcuni dei personaggi politici più rappresentativi del Salento, cinque di centrodestra e cinque di centrosinistra, uniti a coppie. Sono dieci storie nelle quali per una volta i politici raccontano di passioni, sentimenti, fantasia. Per gli autori si è trattato del loro esordio letterario (con l'eccezione del Presidente della Provincia di Lecce.) Avranno un seguito?
Musica che si fa ragno
di Sergio Blasi
Sono le cinque del mattino quando mi muovo dal piazzale del Convento degli Agostiniani per attraversare via Roma e raggiungere Piazza San Giorgio; si attraversano a fatica sia il piazzale che la lunga via diritta perché tanta è ancora la gente.
C’è chi mangia una crepes alla nutella, chi un panino con il pezzetto di cavallo, chi continua con le “ronde”, chi si infila nelle vie del centro storico per un’ultima passeggiata prima di riprendere l’auto.
Gente sudata, gente serena, gente in pace con se stessa, in pace con la vita. È un lungo sciame di persone che cerca la strada del ritorno ed, insieme, il modo per prolungare il più possibile quella notte.
È notte che suggestiona, che fa tornare piccoli uomini forti, dalla schiena curvata dal tempo e dal mestiere. Mani grosse e rugose che accompagnano visi segnati di chi ha molto visto, molto vissuto.
Note famigliari uscite da enormi amplificatori. Note famigliari che escono dalle voci e dalle mani di gruppi di giovani nipoti disposti a “ronda”, intenti a percuotere pelle e sonagli. E ciò che gli occhi proiettano nella mente sono le sue “ronde”, costituite, in un tempo che oramai non c’è più, per concorrere, per affascinare giovani donne compagne di filare in grado di sensualizzare uno spadino, mentre la mano rapida lo aiuta a penetrare un lembo della foglia di tabacco che poi invecchierà al sole dei telai.
Ti sfiora una coppia giovane. Ti passa accanto veloce e porta con sé la festa. È gente bella, è come se le strade fossero letti di fiume e la gente acqua. Acqua che sana, che ricostituisce comunità e che risponde in coro,goccia su goccia alle inquietudini, ai malesseri.
Sembra non fermarsi mai quella lunga strada diritta davanti a te che ti introduce lì dove dal portale barocco, San Giorgio sentinella la piazza ed il susseguirsi frenetico delle note. E mentre la distanza si allunga nel tempo, ma è breve nei metri , l’Est attira su di sé l’attenzione: schiarendosi.
Gli insufficienti tavolini con le sedie dei bar della piazza accolgono amorevolmente non solo le fatiche di una notte ma degli ultimi trenta giorni. Giorni di fatica che preparano ciò che la sera si offrirà ai tanti che godranno, oltre che della musica, delle piazze, delle chiese, dei palazzi, delle case a corte della Grecìa Salentina.
Musica che si fa ragno, paesi che si fanno tela, ragnatela che si fa spazio pubblico che è ricchezza esperibile solo collettivamente, giammai bottino privato che arretra ed impoverisce: bene comune che tiene insieme ed irrobustisce.
Conforta quell’ultimo “bicchiere” che aiuta lentamente a svuotare quell’instancabile piazza. E ritmo che chiama altri tamburi. Tamburi lontani il cui tam – tam ha iniziato ad essere famigliare anche qui, in questa terra per lungo tempo terra di confine e che oggi si fa protagonista, si fa farmaco e cura, con la sua storia, con la sua cultura ed il suo patrimonio trasferito di bocca in bocca nel corso del tempo. Un ritmo ed un tamburello che scrivono, nelle emozioni di chi li frequenta e li incrocia, che qui, in questa terra di mezzo, non è in scena la storia di una terra di confine ma il riflesso di un bisogno universale.
Incrocio di uomini, crocevia di fedi, di vesti e calzari, porta aperta per chi arriva e chi parte. Quell’ultimo “bicchiere” aiuta a scorgere nell’angolo più buio della piazza, che ormai in gran parte si è svuotata, due labbra che si incrociano dopo essersi a lungo sfiorate e rincorse in un simulare di passi, mentre la musica nella piazza si è spenta tranne che nelle lore orecchie.
Gonna che ruota su sé stessa, si gonfia svelando alla piazza non solo caviglie sottili ma lettere, ricamate finemente, di un personalissimo sillabario che ancora riecheggiano nella piazza “beddhu l’amore e ci lu sape fare….”.
Il ragazzo rincorre la ragazza con passi stretti, strisciati sull’asfalto, pronto a incrociare labbra che si abbandonano.
Terra che sa accogliere la schiena di lei che si appoggia a fermare la fatica del ballo e che spalanca la vita a chi ha saputo giocare al corteggio. Le braccia e le gambe, piantate sull’asfalto, che si incrociano assomigliano alle zampe del ragno.
Ragno che morde, iniettando ad una terra disponibile di odorante fertilità il suo nettare d’amore.
Lasciamo la piazza per ripercorrere nuovamente via Roma ed il piazzale degli Agostiniani che hanno già incontrato la luce del nuovo giorno. Gli operai sono a lavoro per ripulire il paese dagli scarti della festa. Una clamorosa festa di suoni e di genti. Un paese che si ricompone dopo essersi concesso aprendo le proprie porte ed allungando le proprie tavole. Un paese che ora dorme, che cerca, trovandolo, il riposo. Ed ora tocca anche a me.
Elogio della conferma
di Vincenzo Barba
Correvo sul rettangolo verde di gioco e sentivo di aver trovato la conferma.
Portavo a spasso il mio corpo in sovrappeso da una tribuna all’altra dello stadio e sentivo di aver trovato la conferma. Il clima non era quello di una partita di calcio ma io sapevo che la situazione non sarebbe tracimata. Gli ultrà della squadra avversaria stavano per entrare in campo, volevano interrompere la partita, pretendevano lo scontro. Urlavo ai miei tifosi di stare fermi, di stare tranquilli, di non accettare la provocazione. E sentivo che quelle parole erano ascoltate. Condivise. Correvo da una parte all’altra e capivo di avere la conferma. La situazione sarebbe rimasta sotto controllo. Certo, qualcuno mi gridava alle spalle che non si poteva fare finta di nulla, che non si poteva accettare supinamente la provocazione. La logica del gallo pretendeva che a becco si rispondesse con becco. No, invece. Dicevo. Non si può e non si deve accettare la provocazione. Gridavo. Certo il vocabolario che utilizzavo per farmi comprendere da qualcuno era un po’ più colorito. Ma il senso… il senso era questo. Correvo. Sudavo e avevo la conferma. Quale conferma? La conferma di un rapporto straordinario ed incredibile con la gente della mia città. Un feeling che conoscevo ma di cui volevo avvertire ancora la percezione fisica. La condivisione di un’idea e di un progetto. La programmazione e la gestione della squadra di calcio era un progetto sociale che partiva da lontano. Radicato nel tempo, insomma. Ma condividere le cose belle è naturale e forse anche facile. Difficile è fare parte di un progetto quando le cose evolvono in maniera diversa. Dinnanzi a quello scontro fisico tra tifoserie c’era soltanto una soluzione: che i miei tifosi e gli ultrà seguissero le mie indicazioni e si attenessero alle mie parole. Se volevano essere parte del progetto Gallipoli Calcio dovevano stare fermi. Non dovevano accettare provocazioni. Dovevano rimanere sugli spalti e continuare a tifare. Mi si ghiacciava addosso quell’emozione nel momento stesso in cui sapevo che dovevo correre per evitare che le tifoserie entrassero in contatto tra loro.
Parlavo alla mia gente. Gridavo. Non avevo voce e gridavo. Dicevo di stare calmi, di stare tranquilli, di non rispondere alle provocazioni. Dicevo che se avessero risposto alle provocazioni di quello sparuto gruppo di tifosi avversari e fossero arrivati alle mani con loro io me ne sarei andato. Io non avrei passato un secondo di più allo stadio. Avrei lasciato tutto. Società, squadra, impegni. Tutto. Dicevano i ragazzi: ma presidente sono loro, guardali. Stanno entrando in campo. Vogliono lo scontro. Non possiamo farci vedere spaventati, impauriti. In campo? Come in campo? Mi volto. Porca miseria. Sono in campo. Voi state fermi. Non vi muovete. Vado a parlare io con quei ragazzi. Fermi. State fermi. E dalle tribune tutti a darmi ragione. Tutti dicevano che avevo ragione. Chiamo il capitano del Gallipoli. Lo guardo negli occhi. Voi dovete frenare gli ultrà. Li dovete convincere che non ha senso che arrivino alle mani con gli avversari. Se non lo fate mi incazzo. Io devo andare dall’altra parte. Devo parlare con quei ragazzi. Corro. Dall’altra parte. Sono proprio in sovrappeso. È vero, devo dimagrire. Da domani. Già. Domani? No, da lunedì. Le diete cominciano sempre il lunedì. Ma domani non è lunedì? E va bene. Incomincio la dieta da domani. Attraverso un oceano di prato verde. Arrivo dalla parte opposta. I tifosi della squadra avversaria sono quasi al centro del campo. Parlo con un gruppo di loro. Una rappresentanza. Una rappresentanza? Ma sanno cosa vuol dire rappresentare qualcuno? Vabbè, continuiamo. Sono giovani. Giovani quanto i nostri ultrà. Giovani. Potrebbero essere miei figli. Mi sono avvicinato. Erano ubriachi. Ho trovato di fronte a me dei ragazzi dallo sguardo perso nel vuoto. Soli. Erano in tanti ma mi sono sembrati soli. Mi sarebbe venuto di accarezzarli, di dare un buffetto sulla guancia, di mettere una mano sulla spalla e di stare a parlare per ore con loro. È stato quello il momento importante. Il momento della conferma. Alle spalle un vociare irreale. Davanti a me quei ragazzi. Insieme andavamo verso la loro curva. Il loro spazio. Sentivo i brividi per quella conferma. Per quel patto silenzioso che avevo stretto con la mia gente. Sorrido a quei ragazzi che mi sono di fronte. Insieme torniamo nella loro curva. La promessa è quella di una spaghettata al Canneto. Al termine della partita. Qualsiasi sia il risultato. Imbandiamo una tavola e ci sediamo intorno. Il loro dialetto lo conosco bene. Loro capiranno il mio. Tutti intorno ad una spaghettata. E ad una frittura di pesce, grida qualcuno di loro. Vabbè, anche la frittura mista. E del vino bianco fresco, aggiunge qualcun’ altro ridendo. No, quello no… brinderemo con l’acqua fresca. Liscia, nemmeno gassata. Ma intanto torniamo ai nostri posti. Di corsa. Chissà che multa salata che mi comminerà la Lega. Non fa niente. Intanto abbiamo evitato lo scontro. Abbiamo arginato la lite. Il resto conta poco. Tutto il resto. Sbrighiamoci. Finiamo la partita. Quanto è finita? Abbiamo segnato ancora? Sbrighiamoci. Devo andare a mangiare uno spaghetto con questi ragazzi!