Domenica Mauri, Per interno

07-04-2008
Un poema privo di punti sospesi, con un dolore che precisa tutto, nella raccolta della poetessa riminese, di Alessandro Puglia
 
 
C’è una pagina assente nei versi di Domenica Mauri, uno spazio vuoto che non dona speranze o capacità d’illusione. Sono versi precisi, misurati e razionali pervasi però dall’affacciarsi di un dolore, struggenti. Per interno (Manni 2007) è la storia di un addio che si compie in un luogo chiuso, circondato da pareti spesse e corridoi lunghi. La poetessa riminese è alla sua seconda raccolta con Manni, nel 2005 ha pubblicato la raccolta di versi Seminario Secondo, ma questa nuova opera risulta più che mai compatta, sorretta da una trama forte che segue gli umori e le intenzioni della voce narrante. Si, sono versi che possono essere letti come un poema, ma un poema privo di punti sospesi, con un dolore che precisa tutto, descrivendo secondo la parafrasi di un io che esce e rientra fuori da sé:«L’io non risuona neppure/ nella voce che presume di sapere [..] L’io non è/ ospite di questa stanza.// Nessuno – qui- in prima persona singolare» C’è dunque un momento per l’immedesimazione, per uno sdoppiamento dell’io tra voce narrante e narrato. I versi seguono l’avvicendarsi di una fine, il ritratto di un corpo immobile. I suoni ammansiti di Domenica Mauri colgono ogni sfaccettatura di un presente che non si piega, che diventa esteso come un assillo: «(Domani si farà. Domani si farà. Domani sarà diverso.)» Non ci sono redenzioni, mistificazioni improvvise, né l’ombra di un dio favorevole: l’unica luce che penetra l’interno è la luce dell’immaginazione, una luce che come scrive la poetessa si fa entrare mimando gli occhi. I tramonti sono corti, la pioggia che cade dal soffitto minuta e decisa tutto questo ad indicare un ambiente statico, senza movimento. Il tema della malattia prende sempre più corpo ogni volta che la poetessa si isola in quegli attimi, estraendosi da ogni appellativo o tentativo di uscita: « Poi ci sarebbe questo esercizio/ per tenere in allenamento i muscoli./ E poi questo così semplice e rapido/ per mantenere in forma/ il cervello»o ancora «Ma forse qualche dubbio compare/ quando attorno agli occhi si fa il vuoto. E non c’è niente/ nessuno./ In circostanze come queste forse/ si vorrebbe dire/ che ci si arrende. Che non è il caso di tenere aperte/ le ostilità.». Viene un attimo di pensare a uno dei film credo più intensi degli ultimi mesi Lo scafandro e la farfalla di Julian Schnabel. Non si prendeva alcuna posizione su un quadro sociale e politico, ma semplicemente si raccontava una storia con i particolari richiesti. Questi ritorni negati, questi quadri ridotti al minimo trovano nei versi di Domenica Mauri una loro precisa fisionomia. La voce di chi soffre e di chi “narra” non conosce consolazioni, come in questa poesia che vale la pena citare per intero: «Parla quando non dovrebbe./ Non rispetta i turni./ Toglie la parola per dire/ cose fuori luogo./ Cose che solo lui/ pensa./ Crede per vere.// E insiste. Alza il tono della voce. Non dà retta a nessuno/ lui che ha sempre/ ascoltato tutti senza/ replicare.»