Donato Valli, Chiamami maestro

17-04-2009

L'uomo e il poeta, di Gerardo Trisolino

La bibliografia comiana si arricchisce di due nuovi titoli, usciti a distanza di un mese l’uno dall’altro:  Chiamami maestro. Vita e scrittura con Girolamo Comi di Donato Valli (Manni, pp. 104, euro 13) e Girolamo Comi. Uomo di ogni giorno curato da Carmelo Indino e Enrico Minerva (Lupo, pp. 186, euro 13).
Due pubblicazioni speculari che ci restituiscono un ritratto privato del poeta di Lucugnano, la sua dimensione umana, i suoi rapporti con i compaesani. Su tutto predominano le preoccupazioni che lo assillarono particolarmente nell’ultimo periodo della sua esistenza, quando si sentì perseguitato più che dal demone della poesia da quello dei debiti e dell’insolvenza finanziaria, dopo il tracollo di avventate iniziative imprenditoriali, come l’apertura di un oleificio. E trovò conforto solo nella fede, che aveva ritrovato nel ‘33, dopo la dissipata giovinezza in Svizzera e in Francia.
Sulla scorta del tuttora inedito “Diario di casa” che Comi aveva iniziato a scrivere a partire dal 18 ottobre 1958 e che giunge fino a qualche mese prima della morte, avvenuta il 3 aprile 1968, Valli penetra sommessamente e con pudore tra le pieghe dell’interiorità comiana, indaga sugli umori e sulle riflessioni che il barone-poeta affidò ai fogli di quei quattro quaderni manoscritti, annotati più per finalità consolatorie personali che editoriali. Il riscontro di ciò che egli vi scrisse ce lo fornisce lo stesso autore, che oltre ad essere il suo più grande studioso e ammiratore ne è stato anche il testimone più fedele: la sua amicizia con il poeta risale al ‘47, appena terminato il primo liceo al “Palmieri” di Lecce.
Il ventennale sodalizio tra i due andò rafforzandosi sempre più, a tal punto che l’emerito studioso cominciò a saggiare i suoi primi esercizi critici proprio sotto la guida di Comi, che nei primi mesi del ‘49 aveva fondato l”Accademia Salentina” e “L’Albero”.
“Chiamami maestro” è dunque una preziosa testimonianza double-face, un libro doppiamente autobiografico, in cui la vita del grande maestro della letteratura salentina s’interseca con quella del grande maestro della poesia salentina. E Valli si confessa nel modo più pudico e umile possibile, senza remore e ipocrisie, rivelando nel contempo la comunanza spirituale che lo attraeva nell’orbita comiana. Colpisce il modo dimesso e la dimensione apertamente confidenziale della sua confessione (ma nel libro non mancano rapidi e incisivi affondi critici): “Sono nato... da famiglia modesta e generosa... Conobbi, per la prima volta, nella apparente ricchezza del palazzo baronale, il sapore della povertà, io che di povertà m’ero cibato ininterrottamente per ventisette anni”. La stessa onestà intellettuale lo porta a ricordare anche alcune incresciose esperienze, come l’iniziale astiosa diffidenza che Oreste Macrì gli dimostrò leggendo il suo primo saggio sulla poesia di Comi. Lo aveva infondatamente accusato nientemeno che di plagio. Con cristiana pazienza Comi cercò di convincerlo che invece quelle riflessioni critiche erano effettivamente frutto della “sapienza di esegeta” di quel giovane studioso. Una piccola bufera che anticipava la bella stagione che ha poi allietato la fraterna amicizia tra i due italianisti.
Uguale debito Valli, divenuto nel frattempo docente all’università di Lecce, confessa modestamente di aver contratto con Marti: “Devo a lui la passione per gli studi, il rigore della ricerca, il magistero dell’insegnamento. È stato Mario Marti il mio secondo maestro, dopo Girolamo Comi”. […]