Donato Valli, Chiamami maestro

01-05-2009

Donato e il barone, una vita di poesia, di Alessandra Guareschi

Mattina di sole a Tricase. Un’automobile nera, ben tenuta, percorre una strada sterrata e si ferma davanti alla casa della famiglia Valli. “Che hai combinato?”, chiede la mamma al piccolo Donato, che è appena stato promosso con la media del dieci: il “barone”, Girolamo Comi, lo vuole incontrare. Inizia con questo episodio l’appassionato racconto di Donato Valli, già ordinario di Letteratura Italiana all’Università del Salento, Rettore fino al 1992. Con una riflessione spontanea e insieme meditata, lunga un libro e lunga una vita, un maestro ricorda il proprio “maestro”. Così voleva essere chiamato Girolamo Comi, uno dei più grandi poeti salentini, autore della raccolta “Spirito d’Armonia” del 1954: non “barone”, come molti, a Lucugnano, frettolosamente dicevano di lui, né tantomeno “professore”. Nel 1947, anno del primo incontro con Valli, Comi si era da poco trasferito nel suo paese d’origine; quasi sessantenne, aveva vissuto a lungo in Svizzera, dove aveva esordito con una raccolta poetica, a Roma, dove si era stabilita la figlia Miriam, e a Parigi. Da qualche tempo aveva preso l’abitudine di tenere un “Diario di casa”, dove appuntava i pensieri, i progetti e che serviva a ridimensionare le ansie quotidiane legate alla non facile situazione economica. I capitoli agili del libro di Valli corrono paralleli a questo diario, ancora inedito, talvolta citandolo e penetrandone lo spirito profondo; scandiscono il tempo e colgono le variazioni nel pensiero di Comi. Nel 1948 il poeta originario di Casamassella riunì intorno a sé i letterati e gli uomini di cultura che sentiva più vicini: tra i tanti Oreste Macrì, Michele Pierri, Vincenzo Ciardo, Maria Corti. Nacque allora l’Accademia Salentina e, poco dopo, “L’Albero”, rivista di critica e di letteratura. Il giovanissimoValli, orgoglioso del suo ruolo, faceva “il manovale”: correggeva le bozze e sbrigava commissioni per conto dei membri dell’Accademia. Comi viveva nel palazzo di famiglia, la residenza baronale di Lucugnano, in condizioni molto modeste, sostenuto dagli aiuti degli amici e assistito dalla donna che un giorno sarebbe divenuta sua moglie: la domestica Tina Lambrini, fedele e devota al punto da rinunciare a qualsiasi retribuzione. Tra il discepolo e il maestro si instaurò presto un rapporto di reciproca dipendenza, non sempre lineare, a tratti complicato dai periodi di lontananza: Comi si nutriva dell’entusiasmo di Valli, che presto cominciò a scrivere dei saggi di critica e che nel 1958 vinse il concorso come funzionario della Biblioteca Provinciale Bernardini di Lecce, per poi entrare in università al fianco del professore Mario Marti. L’avvicinamento alla religione cattolica e gli esercizi spirituali del poeta divenivano sempre più irrinunciabili, fortificando l’animo di Comi e pervadendo i suoi scritti; Valli cita a tale proposito alcuni passi del “Diario di casa”, in cui Comi tracciava periodici resoconti della quotidianità: “È tutto da ricominciare (...), da ripossedere vergine, come al primo giorno della eternità antica...”; “bollette-luce in sofferenza da un mese”, “profumo tenace e violento di un umile fior di gelsomino nello studio”. Come una confessione, come un omaggio sentito e commosso, come una lettera “pubblica” al proprio maestro, il testo di Donato Valli ritrae Girolamo Comi in tutta la sua forza: “Quel che m’innamorava m’innamora”, scriveva quest’ultimo negli anni della vecchiaia, eterno fanciullo e poeta.