Chi, nelle serate tra il 12 e il 16 dicembre 2005, è stato spettatore della «messa in opera» del Ritratto del Novecento di Edoardo Sanguineti, è uscito dalla Sala Borsa di Bologna, luogo dell’evento, con la consapevolezza di avere assistito a un evento storico, un’opera monstrum, strutturalmente indefinibile, come il secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Presente l’autore, al pubblico veniva distribuito l’elenco, in rigoroso ordine alfabetico, degli autori dalle cui opere Sanguineti aveva tratto pagine di poesia, prosa, saggistica di vario genere, lette dal vivo da attori o da studenti-attori: tessere multidisciplinari accompagnate da un commento sonoro e visivo e da sommarie istruzioni per l’uso. Ora tutto quel materiale, 68 schede, o tessere d’autore, riprodotte anastaticamente, sono confluite nel volume Ritratto del Novecento (ed. Manni, pp. 231, euro 20, a cura di Niva Lorenzini). Cento autori, uno per ogni anno del secolo e, in fondo alla lista, con mossa istrionica e automonumentalizzante, la firma del faustiano professore (un Sanguineti che fa di sé stesso un pezzo da museo, verrebbe da parafrasare), bibliofago che ha messo insieme Cage e i Sex Pistols, Picasso e i fumetti di Schulz, Pirandello e, contro le proprie idiosincrasie, Heidegger, e poi autori d’Oriente, da Lu Hxun a Kawabata Yasumari, nella prospettiva di un Novecento globale, non solo letterario, per offrire un compendioso ritratto del secolo tramontato. «Cento testimoni assemblati secondo un criterio non antologico», mette le mani avanti Sanguineti prevenendo la fatidica domanda relativa il civettuolo gioco delle inclusioni e delle esclusioni, a cui non vuole prestarsi. L’oggetto, infatti, è il secolo, e non una sua antologizzazione: «Non tanto ”il meglio di”, ma l’esposizione di quei momenti sintomatici che potessero fare capire allo spettatore (ora al lettore) cosa è accaduto durante il Novecento, passando dal cinema alla musica, dalla politica alla psicanalisi, anche con salti netti e non gerarchici». Un assiometto, innanzitutto: il Novecento, è un secolo «interminabile e non ancora concluso»; e poi quattro paletti: è il secolo della psicanalisi, del montaggio, delle avanguardie e della lotta di classe. Caratteristica precipua del secolo, è stato «il completarsi di ciò che Marx aveva visto anzitempo, ossia il carattere rivoluzionario della borghesia, il continuo mutare dei modi di produzione, che arriva a massima espressione nel Novecento con la globalizzazione, quella che Marx chiamava il mercato mondiale». Un secolo interminabile, di cui è impossibile delimitare i confini, «perché la spinta alla globalizzazione affonda le sue radici nel tardo Medioevo, con la nascita delle banche, l’ascesa della borghesia va retrodatata alla presa della Bastiglia, la prima avanguardia, a ben vedere, è il romanticismo. Mi diverte pensare il Manzoni della Lettera sul romanticismo come il primo teorico della grande avanguardia che è quella della borghesia, per cui non ci sono più modelli da imitare, tutte le categorie che fondavano la tradizione crollano». Tuttavia, la concessione cronologica è inevitabile anche se, per non generare un’idea troppo meccanica e calendaristica del Novecento, l’anno esordiale è fissato al 1899, che è l’anno dell’Interpretazione dei sogni di Freud, «il primo libro che cerca di organizzare il sistema psicanalitico in quanto tale, anche se sappiamo che l’idea edipica era già stata formulata, schematicamente, da Diderot, a dimostrazione che una datazione è sempre convenzionale e arbitraria». Ma veniamo agli attributi del Novecento, secolo, in ottica materialistica, della lotta di classe, giacché «è col Novecento che le classi si riducono a due: marxianamente non c’è che una lotta fra capitalisti borghesi e proletari sfruttati». Professore, la fine del secolo potrebbe allora coincidere con la fine del comunismo? La replica è pronta: «Se lo chiede ai coreani del nord o ai cinesi, le risposte sono di un certo tipo, dai cubani avrà un’altra risposta ancora, e così, ovviamente, dagli americani. Certamente il momento storico di crisi è stato il passaggio da Lenin a Stalin, quando il sogno dell’unione dei rivoluzionari di tutto il mondo cede al principio del socialismo in un solo Paese. A differenza del capitalismo, che ha sempre considerato ovvia l’esportazione imperialistica e violenta della democrazia, il principio di Stalin è che la rivoluzione non si esporta: per questo Stalin considerava i patti di Yalta come sottoscritti, da rispettare alla lettera». In conclusione, sebbene il Novecento di Sanguineti sia agli antipodi da un’idea crestomantica, il poeta-professore accetta di soffermarsi sulle proprie predilezioni: «Non posso nascondere che amo enormemente Freud; considero poi i grandi manifesti delle avanguardie storiche dei punti fermi che segnano una svolta, per cui possiamo prendere il futurismo come punto di riferimento, ovviamente con tutte le cautele, poiché un punto di rottura è già in Manet, autore che adoro: nella sua Olympia confluiscono e vengono messe in discussione tutte le Veneri del passato. Un altro punto di rottura lo abbiamo con le ”Demoiselles d’Avignon” di Picasso: le maschere negre, già adottate dall’avanguardia francese, qui vengono piegate a una visione anticlassica radicale. In termini generali, direi che il passaggio epocale è quello dalla sintassi, che rispecchiava il modello di costruzione razionale della classe dominante, al montaggio, che abolisce le gerarchie, sviluppato poi dai grandi teorici del cinema fino a Lars von Trier. Ma se dovessi ridurmi a scegliere un solo rappresentante del secolo, opterei per Walter Benjamin, dal quale ho mutuato l’idea capitale, che potrei assumere a stemma del Ritratto, ossia l’affermazione ”Io non ho niente da dire, ho soltanto da mostrare”».