Edoardo Sanguineti, Storie naturali

07-10-2005

Il teatro è ormai museo, intervista a Edoardo Sanguineti di Lorenza Buccella


«Ormai anche il teatro è diventato un luogo sterilizzato, perché non c’è più quella spinta alla sperimentazione che lo aveva caratterizzato nei suoi momenti migliori. Vive ai margini e sembra toccato da due sole priorità: fare il minimo di cassetta per la sopravvivenza e portare gli studenti a darsi una spolverata dei vari Goldoni Pirandello Shakespeare, i tragici greci. Si è trasformato in un teatro per le scuole». A esprimersi così, con la delicata perentorietà di chi non mette freno al proprio pensiero, Edoardo Sanguineti, il poeta italiano che, più di ogni altro, da oltre quarant’anni ha stortato le parole attraverso «travestimenti» e sconfinamenti per andare a «fornicare» anche con le arti limitrofe. Fra queste, il teatro merita senz’altro un posto di rilievo, anche in virtù di prestigiosi connubi come quello con Luca Ronconi che nel 1969 s’incarnò nell’indimenticabile Orlando Furioso, punto di non ritorno per la storia della drammaturgia italiana. Ora, in concomitanza con il settantacinquesimo compleanno di Sanguineti, un altro suo testo teatrale, datato 1971, torna a essere scoperchiato nel pieno della sua «fisicità». Soprattutto se si considera che fino a oggi, a parte una versione olandese, non aveva mai trovato allestimenti integrali. Rubando solo in superficie le insegne a Plinio, e più in profondità a Ravel e Renard, s’intitola Storie Naturali, esce adesso in ristampa dall’editore Manni a cura di Niva Lorenzini, ma soprattutto sboccia nella sua completa fioritura scenica in queste sere al «Museo dell’Evoluzione» di Bologna, all’interno del festival di carattere scientifico «Cronobie».
«Pur trattandosi di “materiali da messinscena” come io stesso li avevo definiti», racconta Sanguineti, dopo tanti allestimenti parziali e frammentati, al fondo rimaneva comunque il sogno che qualche regista audace si prendesse la briga di ricomporre il puzzle per intero. Questo è avvenuto oggi grazie al lavoro di Claudio Longhi che per anni è stato assistente di Luca Ronconi.


Una sorta di filiazione indiretta, visto che il progetto iniziale partì proprio da Ronconi e da una sua «sollecitazione» dopo l’esperienza fulminante dell’«Orlando Furioso».
Sì, una collaborazione a cui si sarebbe aggiunto anche l’intervento musicale di Luciano Berio. Purtroppo però quel lavoro collettivo a tre non andò in porto per una serie di coincidenze sfortunate. E allora, avendo già abbozzato i nuclei dei quattro episodi cardine, decisi di svilupparli per conto mio, mantenendo fede al progetto base che era quello di unire un insieme di stanze diverse attraverso i principi della simultaneità.


Una simultaneità di situazioni che scivola sul piano inclinato di un calare di luci e sfocia in un buio continuo. Si scompiglia il cardine «visivo» del teatro, mentre la centralità della scena viene occupata da una fisicità ossessiva, anatomizzata nei gangli dei suoi più intimi disagi. Come si conciliano questi due vettori?
Mi piaceva il titolo di Storie naturali proprio per il suo carattere paradossale, visto che in scena accadono solo cose totalmente innaturali. A partire proprio dall’assenza di luce in cui sprofonda lo spettacolo dopo una sorta di prologo iniziale. Un mondo di tenebre in cui non si percepisce altro che le presenze degli attori. Presenze da ascoltare non solo per quello che hanno da dire, ma anche per il rumore diffuso dai loro gesti e dei loro spostamenti. Qualcosa di amplificato, proprio perché affidato e completato dall’immaginazione dello spettatore.


Un'esaltazione del corpo che avviene attraverso una sorta di «rimozione in presenza». Qualcosa che si colloca volontariamente in «controtempo» rispetto al voyeurismo dilagante di oggi che in un certo senso ha cambiato anche la percezione del nostro corpo.
Il punto capitale mi pare possa essere rintracciato nel fatto che il corpo è diventato modificabile e sostituibile nelle sue parti. Non è soltanto questione di piercing, tatuaggi e lifting, che ormai sono pratica diffusa, ma una situazione generale per cui oggi se il mio fegato non funziona lo posso sostituire con un altro fegato o con qualcosa di artificiale. Un corpo fatto di pezzi intercambiabili che in fondo rappresenta l’evoluzione del mito della macchina d’invenzione futurista. Oggi le manipolazioni avvengono per ragioni terapeutiche, ma anche e soprattutto per inseguire valori estetici, implicando un rafforzamento del voyeurismo, proprio perché ogni pratica del corpo sembra dirottata sui parametri della sua visibilità.


È un surplus di visibilità che però sembra ricondurci in una specie di analfabetismo sensoriale.
Passando al setaccio televisioni, internet e vari derivati pornografici, si fa un gran discutere se la caduta del desiderio non sia dovuta all’eccesso di familiarità con i «corpi da vedere». Le mie Storie naturali invece cercavano già allora di rovesciare questo schema visivo, soprattutto a teatro dove per definizione siamo tutti voyeurs. Con questa messinscena al buio il corpo celato incombe con i suoi piaceri, guasti e toccamenti, senza passare per la scorciatoia dello sguardo.


A più di trent’anni di distanza, come valuta tutti quegli espedienti, spesso incentrati sulla «negazione del palcoscenico» che hanno foraggiato le sperimentazioni teatrali degli anni ‘70?
Che L’Orlando Furioso sia stato uno spettacolo capace di fissare una data nella storia del teatro italiano, è ormai opinione generale. Ma il peggior modo di tenerne conto è stato proprio nelle replicazioni manierate che da lì sono scaturite. Il fatto di mescolare pubblico e attori sulla scena teatrale è diventato un tormentone, un’ovvietà terribile. L’hanno fatto un po’ tutti tanto che non se ne può più di gente che arriva dalla platea e sale su e poi dal palcoscenico scende giù di nuovo in platea. Adesso dovrebbero proibirlo per legge. Il palcoscenico bisognerebbe reinventarlo, escogitando nuove strade.


È un riferimento alla debolezza del panorama teatrale di oggi?
Dopo le esperienze respirate in quegli anni, nel panorama teatrale di oggi non ho più ritrovato nulla di così emozionante come quello che si è vissuto in quella stagione. Mi sto riferendo ovviamente a un certo modo di pensare e fare teatro. Quello dei vari Ronconi, de Berardinis, passando per il primo Carmelo Bene. Lì il teatro nasceva sul palcoscenico e non dalla letteratura. Uno «sganciamento» che ha apportato una lunga catena di benefici.


Come si spiega questa mancanza di continuazione di un discorso?
Semplicemente con un dato di fatto. È cambiato il contesto storico e sono finite le sperimentazioni d’avanguardia.


Insomma, per riprendere una sua espressione, anche il teatro è stato «museificato»?
Più che museificato direi mercificato. Anche se per me queste due parole rappresentano la stessa cosa.