Elena Milesi, Alla riva

01-10-2005

Avventura nella Terra di mezzo, ovvero L’allegria di un naufragio, di Nino Lo Conti


Il delizioso libellum propone in incipit ai lettori la propria raffinata letterarietà, evocando già nel titolo assonanze dantesche che si sciolgono poi anche nella eco dei nostri maggiori poeti del Novecento.
Il sintagma Alla riva si connota, sotto il profilo sintattico, per la forte tensione iperbatica; esso costituisce la parte ultima –quella emersa e fenomenica– del celebre verso, qui prepotentemente invisibile, uscito fuor del pelago alla riva, mutuato dalla Divina Commedia (Inf, I, 23).
Il nome dell’opera si carica anche di intima tensione semantica, perché la riva costituisce sì approdo salvifico dopo il rischio mortale del pelago, ma non significa ancora sicura salvezza: finis terrae di una dimensione perigliosa e malfida, ma anche inizio di un mondo “altro”, misterioso e nuovo, dove ognuno lascia la propria crisalide per volare libero, in una nuova palingenesi.
Come capitò al naufrago Dante, che da una riva spicca il volo verso la salvezza; o come accade ad Ulisse che dalla spiaggia dei Feaci si prepara alla rinascita; “bello di fama e di sventura”; così anche Elena (nomen omen!), sospinta dalle arcane correnti dell’esistenza, approda a questa sottile striscia, terra germinale dove l’eternità pare sospesa e il mistero vicino ad essere svelato; in questa samarcanda dove può capitare di trovare la maglia rotta, il porto sepolto; qui dove balena e si disvela, a tutti, la cruda lama della verità.
Elena Milesi coglie questa verità e la narra agli amici, eliminando però da poetessa grande qual è, gli orpelli contingenti dell’avventura esperita, che in tal modo ci giunge –emendata ma intera, distillata ma insaporita dall’ironia– attraverso i puri rivoli della poesia.
La naufraga guarda negli occhi il proprio mostro silente dai tentacoli strozzanti che le si para innanzi; accetta la sfida e in cambio ottiene la grazia della visione limpida e della trasparenza, dono che accompagna sempre i poeti veri.
Questa “porta” fra due mondi le offre il privilegio assoluto di osservare contemporaneamente due realtà e la possibilità di un continuo confronto. È in base alla doppia visione che giudica, vede e sorride che l’occhio disincantato del saggio; non cede, si aggrappa ai colori e in un pulviscolo d’oro, glissando svirgola felice in superficie. E così Elena scopre che in questa terra di nessuno, fra la vita e la morte, fra rischi e complicanze, esistono anche i birbaccioni, che fanno consulto, decidono, dettano, che si muovono disinvoltamente, vestiti in verde pendant con i colori della sala operatoria.
Ancora una volta la poetessa Elena Milesi, con questa opera, ci partecipa sentimenti ancestrali, che però presentano a limpida trasparenza dell’arte pura. Dell’urlo che ghiaccia e del dolore (cento, da uno a dieci) noi non temiamo il pathos, perché ci perviene cristallino attraverso la grazia della sua poesia che è grazia di dio, negata ai comuni mortali.
Nelle diverse liriche emergono tutte quelle assonanze per le quali mi viene naturale porre la poetessa accanto ai massimi numi tutelari (poeti) del nostro Novecento: penso al Montale di “La casa dei doganieri” leggendo del galletto di latta che gira ammattito sul tetto; si presenta invece Quasimodo nella giornata senza salute / trafitta dai reggi di dolore (“Ed è subito sera”) e nella stupenda sinestesia dell’urlo che ghiaccia (“Alle fronde dei salici”); Ungaretti infine ispira costantemente la poetessa nella stessa musica di fondo che sostiene Porto sepolto e Allegria di naufragi.
Nomen omen!