Elena Salibra, il martirio di ortigia

01-11-2010

Ortigia, polo ispiratore della sua poesia, di Enrico Tatasciore

"…in fuga dall'altra terra il martirio / d'ortigia s'accomoda / nell'angolo / in ombra della sala". E poi: "tenebrosa la sera ci coglie ancora / attaccati alla tela che racconta / del martirio d'ortigia". Il titolo del terzo libro di Elena Salibra, il martirio di ortigia (dopo Vers.es, 2004, e sulla via di Genoard, 2007) è quello "immaginato - scrive l'autrice in una nota - per un quadro di famiglia di autore ignoto". La tela conserva l'impronta del caravaggesco "pittore in fuga" che la dipinse, figura complice e lontana: sguardo da un passato remoto che continua a trovare asilo nella propria opera, ma ne subisce la corrosione della materia e del senso. Come avveniva nel caproniano Passaggio di Enea, l'opera d'arte è punto di confluenza, misterioso e concreto, di memorie private e collettive, di vita presente, di germinazioni nuove: "se ti stemperi / sul tappeto persiano il garbuglio / dei sensi in un pomeriggio / di prima estate // sei nel triangolo della memoria / o è un miscuglio di colori quel me / e te confusi d'umori nuovi…" (la trascrizione purtroppo non rende il ritmo 'visivo' della scrittura della Salibra, fatta di rientri, versi scalati, doppi binari: non per annullare il tempo in una sincronia musiva, ma per fruire di tutte le scansioni, anche di quelle 'mute', che offre il mezzo informatico-tipografico).
L'isola di Ortigia presso Siracusa, dove è la casa natale dell'autrice, resta dunque uno dei poli ispirativi della sua poesia, e congiunge intimamente questo libro agli altri due. Luogo di continui ritorni e di partenze, la casa di fronte al "fondale dei ricci" ospita ora, col quadro, una sorta di superficie dei possibili: avventuroso legame di un tempo originario, tipico del 'nido' più antico, col tempo storico fissato nelle forme dell'arte. Ma se i luoghi della Sicilia possono ancora dar vita a una lirica dell'estate, "tra le canne i mandorleti e il mare" - ed è pieno diritto dell'uomo e del poeta goderne - quegli stessi luoghi possono rivelare un "mondo che ha cambiato faccia" (come già vedeva il Montale di Proda di Versilia), punteggiato di "quelle villette anni sessanta tutte / abusive condonate per metà". Nei versi della Salibra sarà però la coesistenza, la coabitazione contraddittoria di bagliori privati e opacità di un mondo totalmente umanizzato il motivo poetico più nuovo: "nel mese a me propizio il genetliaco / si consuma alla luce del capelvenere. / tenere spirali di sabbia // - lattine di coca metallici lentischi / filari di fichidindia - altro paesaggio / oggi dietro la tonnara". Mentre ancora, in domenicale, ambientata a Carrara, il tema si sviluppa in termini di impegno civile: siamo così nel "centro della piazza // dove un groviglio di corpi appare // appiattiti nel marmo [pario no] della passione / operaia" (il corsivo segnala una voce interlocutoria); dove un poeta che non coincide del tutto col soggetto politico-ideologico (vien da pensare a Sereni), registra ambiguità e ipocrisie dell'anonimo gitante e del letterato 'dannunziano' fra i gloriosi marmi di Carrara.
Elena Salibra vive e lavora a Pisa. La città, coi suoi dintorni, rappresenta un'altra polarità poetica del libro, un'altra geografia, diversa non tanto in senso paesaggistico e visivo, quanto riguardo alla stessa esperienza del tempo, contrapposta a quella siciliana come negotium all'otium. Nel tempo del negotium il viaggio resta: sarà però gita, incursione (o escursione); i percorsi sono familiari non perché quasi ancestrali, ma perché usati, necessari; gli incontri sono scavati nella consuetudine. È proprio questa consuetudine con le cose e con le persone che la poesia registra nella forma del vitale lirismo del quotidiano (" - alla mezza interrompo la lezione / e piombo sul lungarno gambacorti") o della sospensione dei tempi di routine ("chiusa per ferie anch'io come questa / città pedalando m'avvio dove l'argine / gira in una stretta d'acqua"), oppure, pascolianamente, di una vera e propria 'rottura funebre'.
Tempo e spazio, infatti, non sono soltanto quelli del visibile. Già è costitutivo della poesia della Salibra che voci e figure, incontri (come si intitola una sezione), suggeriscano visioni, interpretazioni del mondo, ipotesi (altro titolo, gozzaniano), a un io che dà loro udienza. Tra le figure amiche, familiari, affettuosamente ironiche ("mi dicevi - perché non scrivi versi // per togliere quel tanto di gravezza / alle tue manie - ") emergono allora con dolorosa leggerezza fantasmi che conservano come lo statuto di un perpetuo 'trapasso recente'. È forse una delle forme, questa, del "consolante martirio" che per Elena Salibra testimonia dell'esistenza (e dà vita a risultati fra i più alti della sua poesia). L'opera è nulla se non ricetta queste voci. Una delle poesie più belle della raccolta, al capolinea, inizia così: "c'è un uomo che muore - mi dici - quando / nel mezzodì rintocca un suono come / di un insensato assedio // - vano questo affannarsi sulla soglia /- al capolinea ci vado da solo - / - non avevi voglia di entrare"; più oltre il tu diventa un lui, la voce si fa figura: "arrivava in istituto / (un tempo si chiamava / così) col cappotto il cappello / e uno strascicato passo da gitante sardonico".
Sono presenze come questa che il verso di Elena Salibra ospita nel proprio mondo consapevolmente autonomo, regolato da leggi proprie e da un timbro personale sempre più riconoscibile di raccolta in raccolta: una snellezza ritmica costante che, per il suo esser duttile, permette la contaminazione con l'evento di realtà e con l'alterità propria e altrui. Spostamenti minimi nella rete delle cose e degli eventi sono la cifra operativa di tale avvicinamento al qui e ora: "tutto spostato d'un tanto / nei miei versi / d'un tempo d'un senso d'un dove // [d'una sillaba d'un accento] grafo / di quel movimento - ci sei -".
Non solo poetessa dello spostamento 'metafisico', dechirichiano e morandiano ("[d'un mm]"), ma anche del viaggio in terra lontana, secondo l'insegnamento del Montale 'fuori di casa', la Salibra è capace di trasportarci, con la stessa intensità, nel Marocco delle luci inondanti e di una cultura che attrae e diffida, o nel Giappone dove - con sintesi che va all'essenza di una situazione - "al 51esimo bevi un café du ciel / e spendi il tempo in verticale" (café du ciel, kyoto). Nella sezione rotte sono idee, stili di vita, visioni del mondo a trovar posto nella loro differenza, talvolta irriducibile ma proprio per questo vibrante: quando, ad esempio, "con un nodo alla gola per l'ultima / volta ti spinsi a sostare ma capii // che eri d'altra razza" (alla conceria, fes). La "cantilena" che si ascolta "nella città mussulmana" può parlare anche a chi le è estraneo, se c'è un Arsenio che si tende per lui, che si dona: "se la voce s'impiglia tra le mozze / colonne della piazza reale - ashid - / catturane il suono fanne una nenia / spogliane il senso per chi si ferma / a riposare sulla panchina di fianco / alla porta dorata". Ashid è il nome di questo Arsenio mussulmano.