La volontà e il desiderio, di Dario Goffredo
Da dove viene l’idea di raccontare questa storia?
Come già in altre circostanze, tutto è cominciato ascoltando la gente che, tra le pareti del tribunale presso il quale lavoro, discuteva del processo conseguente all’assassinio di Peppino Basile, Consigliere Provinciale di Idv, avvenuto nel 2008. Non era il caso di cronaca nera in sé ad interessare la mia gente, però, ma la figura della bambina che si diceva avesse assistito all’omicidio. La sua decisione tardiva di rivelare ogni cosa. L’audace atto di volontà. Mi è parso che la vicenda di questa bambina avesse molto a che fare con il piacere della narrazione e la strana forma di solidarietà che può derivarne. Ho sentito subito quella bambina ideale simile a me e ne sono stata contagiata. Non ho potuto fare a meno di scriverne.
Tu parti da un fatto di cronaca e poi lasci libero spazio all’invenzione narrativa. Che cos’è per te la narrazione civile? Ti riconosci in questa prospettiva?
Per istinto mi sento più vicina alla narrativa del realismo piuttosto che a quella dell’impegno civile. Non credo che la narrativa debba svolgere un ruolo militante nel senso più attivo del termine, ma che invece sia chiamata a svolgere una funzione solidale, informativa, immaginativa, persuasiva. Cerco di spiegarmi meglio. Roland Barthes a questo proposito andava affermando (e non era il solo) che la narrativa realistica non esisteva e che ogni romanzo era comunque il frutto dell’artificio, della tecnica o delle convenzioni. Si tratta senza dubbio di una posizione estrema (che alla fine coinvolge anche la narrativa fantastica, quella surreale o post moderna, filoni che rispondono anche esse a logiche convenzionali), dal momento che le narrazioni realistiche esistono, sono sempre esistite e godono di ottima salute tra i lettori. Sarebbe forse più opportuno affermare, come fa James Wood nei suoi più recenti studi, che la narrativa non deve spingere a credere alle cose che narra (non fino in fondo almeno, e non tanto da armarsi e agire di conseguenza), ma più semplicemente farle immaginare. Produrre esperienze immaginative. Creare mimesi che vadano oltre il reale. Sviluppare ipotesi, congetture, soprattutto laddove la realtà dei fatti risulta insoddisfacente. La narrazione deve quindi suggerirci che determinati eventi potrebbero essere davvero accaduti, introducendoci così a mondi e visioni diverse e parallele. La narrazione, infatti ( e non mi riferisco ai saggi o ai reportage che hanno altre finalità), non può essere reale ma realistica, non vera ma verosimile. Obbedisce a convenzioni multiple, il cui rischio non è di essere inveritiere, ma di divenire, a forza di ripetizioni, fin troppo convenzionali. Come il prestigiatore, lo scrittore usa trucchi ma non dovrebbe rivelarli mai. Per tutte queste ragioni, a volte senza neppure esserne del tutto consapevole, mi capita sempre più spesso di partire dalla mera cronaca, per poi precipitare nella trama, tra i buchi, le falle, le trasparenze e là lasciarmi travolgere dal piacere di insinuarvi l’immaginazione, lo stupore, l’alternativa straniante.
Una delle cose che mi ha colpito nel libro è la delicatezza con cui racconti la storia di Flavia, una bambina di appena 8 anni, che cerca di mantenere intatta la felicità delle persone che la circondano attraverso piccoli gesti e riti quotidiani, come il cibo, il bucato…
Ho immaginato il percorso di Flavia come composto da minuscoli, rapidissimi, passi in avanti; delicato quanto quello di una geisha, veloce quanto quello di una centometrista, ostinato quanto quello di una maratoneta. Ho sentito subito una forte attrazione nei suoi confronti (mi riferisco al mio personaggio, non alla bimba della realtà ovviamente), per il suo coraggio e la sua caparbietà. Cosa poteva spingere una bambina come lei a raccontare l’incomprensibile delitto avvenuto oltre la sua finestra (nonostante alcuni le sconsigliassero di farlo) se non il desiderio di essere felice? Un desiderio irrefrenabile come è tipico dei bambini della sua età. Per questa ragione mi sono sforzata di mettere i suoi desideri al centro del racconto, di analizzarli e, nello stesso tempo, averne cura. Ho cercato di rappresentare fino in fondo la complessità dell’infantile desiderare. Ho scavato, sognato, letto, osservato. Sul desiderio si fonda la nostra psiche (che va a colmare la distanza tra ciò che desideriamo e la sua realizzazione), non ci sono dubbi, ma come si formano i desideri? A mio parere si tratta di un’emanazione, di una variazione dei nostri stessi ricordi e di ciò che è sotto i nostri occhi. Di quanto c’è oltre la nostra finestra, appunto. Tutto quello che fa Flavia, disegnando, raccontando, ricordando, relazionandosi con altri, correndo, lo fa solo per essere felice e sentirsi in armonia con quello che vede. Lei non desidera soltanto una cosa, ma un paesaggio. Così si muove per tentativi, cerca canali di comunicazione con le persone che ama, offrendo frammenti di sé: prima solo piccoli dettagli, come i biscotti, le scarpe, la lavatrice; poi elementi sempre più vasti della sua vita. Un desiderare tanto complesso, fragile e dinamico, richiedeva estrema delicatezza.
Il rapporto tra madre e figlia è molto conflittuale, ma mia malato. Invece le figure paterne nel tuo libro sono inquietanti. Che ruolo giocano i genitori?
I genitori sono il fondamento di quel desiderare originario di cui parlavo poco fa, ma con le dovute differenze. Il rapporto madre e figlia è carnale e,per questo,ambivalente. Per ogni donna guardare la propria madre è come guardare uno specchio deformante. Odio e amore, debito e credito: secoli di cultura hanno lavorato in questa doppia direzione, è inevitabile. I padri invece una sono la guglia della nostra cattedrale, il punto più alto dal quale guardare il mondo, la sedia sotto la finestra che allarga la visuale, una costruzione mentale sulla quale si continua a lavorare nel tempo. Nel mio romanzo però ogni sedia è vuota, ogni sedia è un inganno, è un sogno: bisogna far senza.
Un personaggio “ minore” nel racconto, gioca invece un ruolo centrale: il badante indiano Om. Ci parli di lui?
Om non è un personaggio minore manco per niente! Lui è lo straniero, l’altra faccia di Flavia. Lui non corre, non usa le gambe per entrare in relazione con il mondo, per attraversare il paesaggio: lui cucina. Anche Om, come Flavia, si sforza di essere felice in un mondo che non conosce e non comprende, che apparentemente parla una lingua diversa dalla sua. Anche lui racconta il mondo dal quale proviene e rintraccia ipotesi di felicità alternativa nelle piccole cose che vede. Una felicità low cost, forse l’unica che possiamo permetterci in questo momento storico, che si nutre della relazione con l’altro e delle narrazioni che ne derivano.
La felicità dei tuoi personaggi sembra passare attraverso la possibilità di raccontare storie. Che cosa è per te la narrazione?
Un esercizio di ottimismo estremo direi: narrare significa prima di tutto credere che ci sia qualcuno disposto ad ascoltare. Oltre questo, significa poi anche molte altre cose. Tipo mettere ordine, cambiare idea, farsi notare, esistere volontariamente. In particolare, se dovessi dire cosa è veramente per me, cosa era quando avevo sedici anni e cosa è ancora oggi, direi più semplicemente che si è sempre trattato di dire un paio di cosette chiare e precise a mio padre, che è sempre stato un po’ come stare al telefono con lui, o anche al citofono, e, per questa ragione, è sempre stata una faccenda piuttosto complicata.
Quando c’è di Elisabetta Liguori (della tua vita e delle tue esperienze) in questo libro?
Forse si fa prima a dire cosa non c’è di Elisabetta, in questo romanzo. Molti dei personaggi della vicenda sono in realtà personaggi della mia vita, alcuni dialoghi sono autentici furti dal quotidiano e, a volerlo fare, si possono individuare schegge di me ovunque, lavoro e vita privata, amici e nemici, vicini di casa o lontani parenti, come è naturale che sia. Il vero problema non è mai stato rintracciare quei frammenti, ma comporli in unità e condurli altrove. Lontano da me. Il più lontano possibile.