Bambine e donne nel Salento, di Flavia Piccinni
Questa è la storia di Flavia, otto anni e nessuna paura. Nessuna paura di raccontare quello che ha visto, anche se si tratta di un omicidio. Ed è la storia di Concetta, assistente sociale sovrappeso con un vuoto da colmare dentro il cuore, fra un amore così vecchio da essere ormai sbiadito e una madre malandata. Questa è soprattutto la storia di due solitudini e di due disperazioni, di due gioie che si sommano per farsi forza e diventare il cardine di un romanzo intenso dove, anche se “era chiaro che erano andate così le cose”, la verità è una cosa da svelare passo passo. Lentamente. Perché scoprirla è un po’ come diventare adulti. È un po’ come perdere quell’innocenza che, forse, solo alcuni bambini conservano ancora.
L’idea per questo romanzo è nata velocemente, la mattina in cui una bambina, che si diceva avesse assistito all’omicidio del suo vicino di casa, si presentò nel tribunale presso il quale lavoro da circa quindici anni, per raccontare la sua versione dei fatti. Fu un evento eccezionale, tutti in ufficio parlavano di lei, ed io mi identificai immediatamente con questa narratrice in erba che intendeva affidarsi a noi con un atto preciso di volontà: raccontare una storia, la sua storia, nella convinzione che ciò potesse rendere più felici le persone che le vivevano accanto e lei stessa con loro.
Perché si tratta di una storia che ha molto a che fare con il concetto di Tempo. La narrativa racconta sempre il Tempo, anche quando sembra non farlo; per accelerazioni, per sospensioni, attraverso la memoria o la mera immaginazione. Non può farne a meno. La narrativa è uno strambo mezzo di trasporto, che obbliga il lettore a viaggi a volte ordinari, altre volte straordinari. Ne sono stata certa sin dall’inizio: lavorare sulla vicenda della piccola Flavia mi avrebbe consentito di raccontare il Tempo che passa sulla terra, sulla gente, sulla memoria, sui corpi. Immaginare la mente di una bambina alle prese con la sua memoria e una certa idea di futuro poteva essere lo strumento ideale per capire cosa ciascuno di noi può fare del Tempo, datogli in sorte. Come trasformare i bisogni primari in desideri e prospettive. Il cambiamento, in altre parole, sia in senso positivo che in quello negativo; che poi forse è l’unica certezza che abbiamo.
Direi di sì, ma a mio modo. Il romanzo, come dicevo, prende spunto da un caso autentico di cronaca giudiziaria che insanguinò il Salento nel 2008, ma poi si dirige altrove. È questione di scarsa fantasia, forse, non so, o di equilibrio. Mi piace tenermi sul filo. Proporre angolazioni, punti di vista differenti, fare ipotesi servendomi di una prospettiva obliqua. Mi sento di dire che senza un punto di vista personale, non avrebbe alcun senso un romanzo come il mio. Non mi limito a raccontare fatti di cronaca, perché molti altri professionisti del settore potrebbero fare questo mestiere meglio di me, ma gioco con il tempo reale, creando ucronìe. E se le cose fossero andate diversamente? What if? direbbero gli inglesi. Mi ritrovo sempre più spesso a immaginare i fatti che vivo quotidianamente come stoffa stesa su un piano: ci sono sempre dei buchi, delle smagliature, zona più in ombra, bene, è là che può insinuarsi la finzione letteraria. E dove la forbice tra vero e falso si allarga, nascono i personaggi migliori.
Lavoro presso il Tribunale per i Minori. Ho due figli in età preadolescenziale, io stessa credo di non essere mai cresciuta del tutto, nonostante la mia veneranda età, ne consegue che il mio piccolo universo è pieno di bambini. Per fortuna. Dei bambini l’amo l’energia, lo slancio, la curiosità, la ricerca fiduciosa. Mi piace la loro velocità, soprattutto, la capacità di entrare nel paesaggio in un attimo, di adattarsi e nello stesso tempo modificarsi con quello. Lo sguardo divergente, che cerco di riprodurre nei miei racconti. La capacità di trasformare la realtà. Non so dire se questa attitudine potrà salvare il mondo, o distruggerlo se della distruzione avremo creato le premesse, quello che è certo è che ci obbliga ad una maggiore attenzione, perché rappresenta il futuro.
E’ indiscutibile: è tipico delle donne creare relazioni. Le donne scelgono, selezionano molto, è vero, ma poi sanno entrare in relazione profonda con gli individui che hanno scelto. Creano dualità, legami forti, il che può essere molto utile, secondo me. Di questi tempi, direi di più, quella relazionale forse è l’unica felicità alla quale possiamo aspirare. Una felicità per così dire low cost. In effetti è proprio questo ciò che accade tra Concetta e Flavia tra le pagine del mio romanzo. Si muovono l’una verso all’altra, all’inizio piuttosto inconsapevolmente, poi con sempre crescente determinazione. Si incontrano e si riconoscono. Un po’ come accade tra narratore e lettore, Flavia racconta e Concetta ascolta, questo permette ad entrambe il cambiamento del quale entrambe avevano bisogno. Una offre all’altra frammenti scomposti di sé, che insieme creano identità, interezze. Il loro non è il classico rapporto materno, non un’ adozione, ma un vero e proprio affidamento famigliare, da intendersi nel senso più ampio possibile. Ciascuna riconosce il mondo di provenienza dell’altra, i relativi desideri, li provoca anzi e poi li condivide, nel rispetto di ruoli e spazi differenti.
Di tenere a bada i muretti a secco, che sono roba pericolosissima! Scherzo, ma non del tutto. Bellissimi ed equivoci, luogo di fatica e creatività, quei muretti sembrano uguali, pur essendo diversi l’uno dall’altro: possono confondere il viandante, chiunque esso sia. Possono impedirgli la fuga, ipnotizzarlo e imprigionarlo per sempre. Un modo divertito e affettuoso per dire che la nostra terra è ingannatrice, si fa amare per la sua bellezza, per la sua mitezza, per il suo carattere deciso e unico, ma rischia di rinchiudere le sue voci migliori in un ghetto. Per questa ragione chi vive e scrive in Puglia a mio parere dovrebbe trovare la forza di farlo come se fosse vivesse altrove. Non si devono rinnegare le proprie radici, ma neppure trasformarle in un contenuto spiralico. Quelle radici, infatti, hanno un senso solo se possono essere condivise e diffuse, se germinano il mondo.
Da qualche giorno sto lavorando ad un romanzo breve; giusto la misura di un esercizio muscolare per tenermi calda durante questo freddo inverno. Una storia surreale, questa volta, non ambientata a Sud. Nello stesso tempo sto ragionando sulla possibilità di dare ancora a voce a Concetta e al suo piccolo mondo fatto di madri sole, amiche generose, pigri compagni di vita, pavidi datori di lavoro, cagne inquiete, per una nuova storia noir.
Di recente ho preso parte ad un progetto nato a Roma con il sostegno della Regione Lazio. Piccoli Maestri, questo il nome dell’iniziativa. Il tutto è partito da un’idea di Elena Stancanelli, a sua volta mutuata dalle esperienze di Dave Eggers in America (826 valencia) e Nick Hornby a Londra (Il ministero della storie). L’idea sarebbe quella di una scuola di lettura pomeridiana, indirizzata ai ragazzi delle scuole medie superiori, tenuta da scrittori di tutta Italia, che partecipano a titolo gratuito, mettendo a disposizione un po’ del loro tempo e della loro passione. Una scuola, sì, ma non esattamente di scrittura, quindi. Una serie di incontri per aiutare i ragazzi a leggere i grandi classici, insegnare loro come si fa e perché è bello farlo. Per scoprire insieme come sono fatti i bei libri, cosa c’è dentro, cosa c’è intorno, e quanto può essere facile e gratificante avvicinarsi a questi oggetti misteriosi. Siamo solo all’inizio, non è facile organizzare le cose, ma già l’iniziativa sta dando i suoi primi frutti. Ci si incontra un lunedì al mese da Matemù, un centro di accoglienza giovanile a Roma in zona Esquilino (Via Vittorio Amedeo II, n.14) ed un sabato al mese nei locali della Scuola Popolare Piero Bruno, in zona Garbatella, presso il Centro Sociale La Strada (Via Passino, n.24). La partecipazione agli incontri è gratuita. L’elenco degli scrittori e delle scrittrici, abbinato ai libri che hanno scelto, è a disposizione di tutte le scuole. Per ora, basta decidere di esserci.
E se poi qualcuno, tra i vivi e i morti, ci resta male? Non mi resta che scegliere d’istinto, o per reazione, senza pensarci troppo, escludendo i presenti a questa intervista e i parenti più stretti. Per il passato scelgo la poesia, voci furibonde e immediate: Vittorio Bodini, Rina Durante e Claudia Ruggeri. Per il presente scelgo compagni di viaggio, scelgo per affinità (caratteriali, tematiche o esperenziali) non per qualità: Cosimo Argentina, Livio Romano e Mario Desiati. Vite e scritture tutte diverse, come in un orchestra diversi sono gli strumenti necessari e il loro suono.