La perduta contrada, di Mario Baldoli
Il romanzo di Elisabetta Luzzardi Contrada Mocenigo (ed. Manni, p.168, introduzione di Silvano Agosti) è un'opera che viene dal profondo. Volendo approssimativamente inquadrarla, la si può definire un romanzo di formazione, ma oggi il romanzo di formazione è quello in cui una scrittrice avveduta come Luzzardi fa i conti con un'epoca, quella del mondo contadino che ha conosciuto da bambina, della sua bellezza, ma anche della sua violenza. E fa i conti con i luoghi che cambiano: la campagna del ricordo non è la stessa che ritrova da adulta; Brescia, dove pure giocava senza timori, è una perenne coda automobilistica, un nucleo stravolto dove appaiono oasi di case per una serenità che è solo privata. Al centro c'è lei, bambina sbattuta dall'irrompere dell'adolescenza, lei che vuole crescere, ma non vuole uscire dalle coccole dell'infanzia, sente le tentazioni della nuova età: cosa vuol dire, per esempio, quella canzone dell'alpino che dice: «se sei da maritare, dovevi dirlo prima»? Zotico certamente l'alpino, ma cosa significano gli sguardi ammiccanti degli adulti? Cosa doveva dire quella ragazza? Le pulsioni crescono, il rancore per i divieti si alterna al bisogno di certezze, l'inquietudine diventa somatica, e la protagonista si ritrova ai confini della follia. Il luogo più vissuto dalla scrittrice è Contrada Mocenigo, frazione di Vestone, una ventina di abitanti, la casa dei nonni al limite del bosco, i profumi di vento e di sole; ma anche quella bellezza era precaria. C'era la «buca dei morti» a richiamare la peste del Seicento; sullo spiazzo di Belprato i fascisti fucilarono il partigiano Emiliano Rinaldini, scendendo poi cantando con le sue scarpe appese al fucile. Più oltre c'era il vecchio che sverginava le bambine con le mani. Infine, a partire dai 15 anni, la scrittura, una via per la salute, per arrivare a questo romanzo, immerso nella concretezza quasi fotografica dei luoghi e degli oggetti, attraversato da un groppo di malinconia.