Atmosfere assonnate di una Campania che si rivela inquietante e oscura, di Giuseppe Amoroso
Un paese della Campania assonnato nei lenti gesti di abitanti senza fretta, nei movimenti che sembrano «quelli di dietro le quinte, muti». Qui vive il signor Alfonsino, magro, filiforme, abituato a parlare per proverbi e, ormai vecchio, a pensare «troppo spesso all’universo». Lo circonda un piccolo mondo incantato, fiorito di sorprese che si dileguano con la stessa leggerezza con la quale si sono presentate: qualcuno sparisce nel nulla; un venticello arriva sempre a mezzogiorno, avvolge per qualche minuto il quartiere rifugiandosi poi all’interno di una montagna vuota; santi bizzarri compiono miracoli indecifrabili; la Sala Riservata di un circolo può regalare l’apparizione del Volto Santo su un foglio di quaderno a quadri; un prete, mentre legge su un librone nero la storia delle origini dei luoghi, «fa uscire dai denti una vocina di strega, serpentina e secca». In questa atmosfera magica che ridesta da ogni angolo figure di leggenda nella rovente aria dell’estate, quasi impalpabile si fa la differenza fra le presenze arcane e uno stranito coro di abitanti sospesi nelle voci e nel silenzio. La sparizione di Emilia Santoro osserva a largo raggio improbabili figure dell’assurdo, ma concentra l’attenzione su Alfonsino, chiuso in casa perché «le parole gli si incantano in bocca come a un bambino balbuziente». E mentre il suo tempo «già comincia a mangiarsi la coda», egli cerca la forza per morire con dignità. La cagnolina Stella e le sporadiche visite della Governante Olimpia, anima «complicata», che scrive poesie per non dovere pensare, non alleviano la solitudine di Alfonsino impegnato a divenire sempre più sottile. Diminuisce visibilmente in altezza, «vede farfalline dappertutto», anche sui lampioni della strada divenuti «uno sbattere d’ali». Una rappresentazione limpida, ancorata alle cose quotidiane è guidata, senza frizioni, da uno sguardo che bonariamente deforma (come negli amabili sortilegi di Nicola Lisi). Non è il capriccio nero di crude eversioni a operare smottamenti di senso, folate di vertigini: l’autrice cerca di accordare con naturalezza i piani della realtà e della finzione, senza rinunciare a una componente illustrativa che attutisce e leviga le asprezze. Si avverte l’effervescenza di una creatività sensibile all’avventura ma pronta a non tradire la sua essenza riflessiva che non spinge la trasgressione verso l’approdo all’oscurità minacciosa. Si fa avanti una sofferta solidarietà con i lembi oscuri di una natura da cui è lecito attendersi qualche «mezzo miracolo», segreti anche brucianti che tuttavia paiono volersi svelare. Occhi «si rannicchiano» e da qualunque punto attendono; lo spazio «s’espande» intorno al protagonista, gli oggetti «crescono», la notte «s’ingigantisce». Nella notte «il maligno s’aggira in cerca della sua preda umana». Una spedizione scientifica va alla ricerca delle farfalle sparite ma si imbatte nella «ragnatela» della «voce del destino». Lontana la città prosegue la sua «corsa» nella pianura, «come un grosso ragno allunga le sue zampe e dove può s’allarga». Tutto è sconvolto, il mare melmoso, la spiaggia invasa dal catrame. Nella sua camera, ridotto a una specie di neonato Alfonsino vagisce finché non chiude gli occhi. E se le ombre, le voragini dentro la montagna, le parole rubate agli alberi non fossero incantesimi ma gli effetti speciali di film americani?