Emilio De Marchi, Prima di prender moglie

03-09-2010

 

Anelli nuziali e consigli per i semplici, di Ferdinando Pappalardo

La letteratura sul matrimonio, che può essere considerata un sottogenere della trattatistica morale ed è dunque ispirata a un dichiarato intento pedagogico, vanta una lunga e illustre tradizione, che risale addirittura a Seneca e a Plutarco. In questa tradizione si colloca, all’apparenza, Prima di prender moglie di Emilio De Marchi (l’autore del più noto romanzo Demetrio Pianelli), un agile e godibilissimo libretto uscito nel 1885 e ora ripubblicato in una nuova edizione da Manni, per la cura di Paola Mazzucchelli e con uno «scritto sul matrimonio» di Raffaele La Capria (che è poi, di fatto, un tenero racconto della sua lunga, felice storia d’amore con Ilaria Occhini).
All’apparenza, si diceva: giacché per De Marchi il matrimonio non è una metafora della natura umana, dei suoi vizi e delle sue virtù, e neppure «la vera fortezza, l’acropoli» dell’esistenza, o soltanto «il fondamento della vita sociale», ma un istituto giuridico, diverso di tempo in tempo e da società a società, e per giunta comprensivo di una innumerevole singolarità di esperienze. Per il matrimonio non valgono dunque i principi assoluti, regole generali, oggettive, fornite di una qualche plausibilità scientifica («Ciò che si dice di una pianta torna in molte parti uguale anche per l’uomo, colla differenza che all’uomo sono le condizioni sociali il suo terreno, e a lui è dato un certo lume interiore e una certa libertà di poter disporre di sé»); anzi, in materia la scienza concorda con il senso comune, si riduce a confermare «ciò che il popolo va ripetendo da mille anni ne’ suoi proverbi e nelle sue tradizioni» (e infatti il sottotitolo del libro recita: «Almanacco dell’Esperienza […] a totale beneficio degli uomini semplici»).
Per altro verso, il matrimonio costituisce non un imperativo morale, ma una scelta giustificata da un’attenta valutazione delle opportunità, da un disincantato calcolo delle convenienze: «Non si deve chiedere se si deve o non si deve prendere moglie, ma in ogni singolo caso rivolgere a se stesso questa domanda: Sono io nelle condizioni di pigliarla?».
Da queste premesse anticonformistiche (di chiara impronta scapigliata), motivata da un’etica onestamente utilitaristica (con ogni evidenza mutuata dal positivismo), discende l’impossibilità di impartire insegnamenti sull’argomento, e men che meno di dettare precetti universalmente validi. E infatti De Marchi si limita a fornire qualche consiglio, alcune raccomandazioni, una prosa che – conseguentemente – evita toni asseverativi, rinuncia alla coerenza argomentativa, stempera la sentenziosità nell’ironia, riscatta le rare inflessioni paternalistiche con l’arguzia e la bonomia, alterna il taglio saggistico a dialoghi dal sapore teatrale e a inserti narrativi.
A parere dello scrittore – che si rivolge non agli uomini sposati ma a coloro che intendono affrontare la prova del matrimonio – «la capacità giuridica per prender moglie» postula la libertà dal bisogno (occorre «assicurare pane e pietanza ai figliuoli»), un carattere compatibili con quello del coniuge, l’onestà, la giovane età, l’entusiasmo; tutti coloro che non sono in possesso di tali requisiti vanno classificati fra gli «inabili al servizio» e fra gli «esonerati per speciali riguardi». Vi è però anche una fascia intermedia, costituita dalla «guardia nazionale», dai «revidibili», dai «messi in osservazione» e dalla «milizia territoriale»: categorie non del tutto idonee alla «battaglia» del matrimonio, e che possono dunque mobilitarsi – in specie le ultime – soltanto in situazioni eccezionali.
Gli assunti pragmatici e relativistici su cui si regge Prima di prender moglie offrono la migliore chiave interpretativa del libro: che va perciò letto soprattutto come testimonianza dello spirito pubblico di una società in cui ancora domina una cultura patriarcale e maschilista (i vantaggi del matrimonio sono esaminati quasi esclusivamente dal punto di vista del marito), e si vanno affermando i valori borghesi dell’individualismo e del «tornaconto», che sacrifica cinicamente sull’altare dell’«affarismo» la «poesia» delle nozze e la pretesa sacralità del vincolo matrimoniale, con buona pace della retorica tradizionalista.
Per questi aspetti, De Marchi mostra di percepire le avvisaglie del processo di secolarizzazione che segnerà il secolo successivo, producendo fenomeni (a cominciare dal narcisismo) la cui ampiezza e radicalità egli non poteva – dalla modesta specola dell’Italietta umbertina – neppure immaginare.