Nascite senza seguito, partenze invisibili per ricordarle. Ritorna la forza del verso, di Stella Cervasio
I tempi sono maturi per i versi, più di quanto pensiamo. Quasi fatale che, con l’eccedenza di parole, notizie, fatti, racconti, romanzi, insomma narrazioni, e con un tempo sempre più ristretto per impossessarsene come lettori, lo scossone, l’emozione, fossero affidati alla poesia. Mi capita per la seconda volta in un lasso di tempo ristretto di parlare di un libro di versi di una autrice che li dedica a un piccolo figlio perduto, a un futuro negato, a un destino anticipatamente infausto (“è inutile che ti illudi, solo io ti onoro di pianto, per gli altri sei passato invano”). Una nascita senza seguito sembra un evento ancora più impalpabile, ancora meno memorabile, nell’era del “profitto sopra ogni cosa”, e della “cancellazione assoluta della memoria”. Autobiografico, forse, ma in fondo solo fino a un certo punto. Un figlio perduto è anche quello che non si è avuto, per scelta o, anche qui, per destino. È quello che decide di andarsene prendendo le distanze dalle similitudini. O che viene allontanato dalla vita dalle sue radici. Il dolore pervade le parole. Ma le parole non sono esorcismi. Piuttosto danno il nome alle cose.
Nel libretto di Enza Silvestrini, partenze che lasciano il segno. Un genitore se ne va. Un figlio supera appena la soglia della nascita per non andare oltre. Siamo deputati a generare nostri simili, oppure parole. Ma in alcuni casi, come in quello di questo libro, allo strappo di umanità si accompagna l’efficacia di una poesia che taglia e squarta ma che, con uguale forza, ricuce e ricompone.