Nel segno del dolore, di Loretto Rafanelli
Nulla sappiamo di Enza Silvestrini, se non il tanto che dice in questo esile, sofferto, libretto di poesie, Partenze. Sono versi che escono da un fronte ospedaliero, dove prima c’è stato il passaggio del padre, poi di lei stessa. Passaggi che sono partenze verso un dolore profondo, immersa come è in “piaghe purulente / che non rimarginano / mai gli arti / il sangue le ferite / del lezzo d’ospedale / che è attaccato addosso”. Un dettato incalzante che abolisce anche i segni di interpunzione per l’esigenza impetuosa di far uscire il tutto che la opprime. Pare quasi che la Silvestrini sia mossa da un’istanza primaria, decisiva, vitale: ne nasce un’opera prima che si presenta come la profondità di una ferita ancora viva, più che un tentativo letterario. C’è nei suoi versi un serrato confronto con la morte: quella del padre, che ella sente come una paralisi perenne, e che ricorda allorché «sono io… che lasciò spegnere / la sua candela / quella notte / che il tuo respiro / diventò un rantolo / … / nel buio»; quella da lei sfiorata, ma che sente ancora nella carne come una corsia della pena.