Nel labirinto tutto il poetabile, di Gilda Policastro
Con un autore come Sanguineti si corre costantemente il rischio di comprendere entro un’opera singola lo sviluppo di tutta una poetica, anche quando ciò comporti la negazione di fatto della sua stessa ideologia, in questo caso il suo mai dismesso materialismo storico. È quanto osserva Erminio Risso nell’introduzione all’attesa edizione commentata del poemetto esordiale (1956) edita da Manni, Laborintus di Edoardo di Sanguineti: Sanguineti, guarda caso, non ha poi più scritto, né avrebbe potuto, in «laborintese».
Laborintus, dunque. Con esplicita allusione al laberinthus dell’iscrizione lucchese di S. Martino, oggetto in Kerényi di simbolizzazione del mondo come caos; e al laborintus paraetimologico della glossa all’Arte Poetica di Everardo Alemanno, posta in esergo alla princeps del poemetto: «Titulus est / Laborintus / quasi laborem / habens intus». E veniamo subito al nodo: qual è il «lavoro», che questo testo inaugurale di un’epoca, quella dell’«esaurimento storico», giusta la memorabile replica dell’autore alla taccia zanzottiana (di un «esaurimento nervoso», invece, e dunque tutto personale), ha al suo interno? Si tratta senz’altro di un lavoro «complicato», riprendendo il secondo dei due termini dicotomici posti a titolo nell’introduzione al testo di Risso (il primo, «anarchia», tornerà utile fra poco), un lavoro di dissoluzione e ricomposizione del reale scandibile in tre momenti, interrelati e non consequenziali (Laborintus è, se mai, l’antilinearità e l’anti-narrazione, sebbene non la deriva postmodernista del senso, come questa edizione rende evidente). Il primo è la focalizzazione sull’essenza fisiologica dell’uomo, che non solo si putrefà per naturale dissoluzione organica, ma è ridimensionato pure nella sua capacità emozionale, ridotta, attraverso l’Aristotele metastasiano, a espressione di «stati ed affezioni del corpo […] colpi e tormenti» (sez. 23). Molti se non tutti i frammenti del testo si riempiono di cancri, cancrene, epiteliomi (con precisione medica frammista a memoria pirandelliana, probabilmente), e il raggelante «Krebs […] unheilbar» (cancro incurabile) della rievocazione autobiografica –un’autobiografia, s’intende, di dati di realtà e di poetica insieme– non si stempera affatto, nella solo apparente «tendresse des Meres», dal proscritto Gabalis (sez. 21). Con altrettanta «naturalezza» (che è poi, invece, materialità, e quindi storia, cultura e non natura, secondo inderogabile assioma sanguinetiano), ciò che si dissolve lucrezianamente si ricrea, trovando ricomposizione entro un mondo che può includere negli oggetti fingibili, o «a reazione poetica» (da Le Corbusier, cui in diretta citazione si invia), la secca patologia medica con la romantica selenografia (di un romanticismo, però, sempre scientificamente corretto), l’opus alchemicum con la propaganda politica, la poesia come tradizione riconoscibile e il suo travestimento o «prototravestimento», secondo la corretta precisazione di Risso che ci consente di ritornare al tema iniziale. Due su tutti, gli esempi: l’amatissimo Foscolo, di cui Sanguineti andrà a prefare negli anni ’70 le Lettere scritte dall’Inghilterra, chiudendo col celebre verso la Chioma di Berenice («i poeti traggono qualità da’ tempi»), già riproposto (ma aggiornandolo in senso storico) nel tratto incipitario di Laborintus («noi che riceviamo la qualità dai tempi»); e il non altrettanto amato perché «reazionario» Leopardi, col motivo lunare della vulgata contaminato con la lucida acquisizione pre-nietzschiana del «solido nulla» (qui laborintizzato in un nulla addirittura «indemoniato», come nell’altro possibile Leopardi, quello del meno ovvio Arimane). Secondo momento: l’uomo nella società. Il riferimento inevitabile, potendo solo accennare, va a un’ipotesi di anarchia –eccola, dunque– che saldi in unità gli individui e corregga col marxismo ogni possibile deriva irrazionalistica («le condizioni esterne esistono realmente», sempre dal frammento inaugurale). Terzo: l’uomo in questa società, neocapitalistica e post-atomica (con l’immagine ricorrente dei «funghi fumosi»).
Si aggiungerà il momento più squisitamente letterario (posto a fondamento della stessa esigenza strutturale del commento): con la catabasi nella Palus Putredinis (scandita, come nel libro odissiaco, dai riti dell’iniziazione, lì del sangue, qui, contaminando Omero con Artaud, dello sperma), siamo nel pieno della tradizione del viaggio infero, rivissuto come piena immersione nel sogno, con uno scarto che colloca quest’ultimo, passando per Freud, Breton e Buñuel, su un solido piano di realtà. La porta inferni è qui, più boccaccianamente che dantescamente, il corpo della donna, che al termine del percorso catabatico finisce per identificarsi con la «lividissima palus». L’esaurimento nervoso diventa, appunto, esaurimento storico se i personaggi, inevitabilmente condotti nel percorso poetico da un prima a un dopo sia pur attraverso una circolarità riproducibile all’infinito, riescono a uscire, con «allegorico realismo» (ancora con Risso), dall’indeterminatezza e dalla stagnazione del fango. Ma si tratta sempre, sia chiaro, di un’antinarrazione, e tutto quello che Sanguineti farà da adesso in poi, dell’andamento romanzesco negherà l’assunto fondamentale: linearità coincidente con la ratio. Irrazionale è il sogno, e l’invenzione niente inventata e tutta trovata di quando l’arte vuol farsi «contemporanea», o ricevere la «qualità del tempo».
Nell’introduzione al volume sul teatro Sanguineti ricorda la sua smania giovanile di collezionare, e l’ambizioso titolo di un suo quaderno: Tutto. Stando a questa sudata opera di dissotterramento delle fonti, non si può certo dire che l’ambizione sia rimasta irrisolta: tutto (il poetabile, e l’impoetico), si può dire, almeno in un labirinto.