Erminio Risso, Laborintus di Edoardo Sanguineti

19-01-2006

La preconizzazione del presente nel segno di una apocalisse, di Alfio Siracusano

A cinquant’anni dalla sua pubblicazione Laborintus di Sanguineti mantiene intatta la capacità di far discutere, quasi trasferendo all’esterno il senso di quel «laborem habens intus» che ne giustificava il titolo – tratto, come è noto, dall’Arte poetica di Everardo Alemanno. Risso ne ha fatto ora uno studio di accuratissima analisi e il senso complessivo di questo labor ermeneutico non si fa fatica a collocarlo dentro coordinate molteplici: che vanno da una ricomposizione degli elementi più esplicitamente testuali dell’opera, con la messa in luce della rivoluzionaria strumentazione frastica di cui si giovò l’autore fino a trarne effetti di formidabile spaesamento per l’appunto «labirintico», alla individuazione del senso storico-politico della sua creazione, legata al momento di angoscia universale indotta dalla prospettiva atomica incombente sull’umanità – quasi laica immanenza di incombente apocalisse tratta da un Nuovissimo Testamento che aveva alle spalle gli orrori della guerra e si vedeva attorno tempi che sembravano marxianamente maturi per una fine «altra» della storia – , alla sua rilettura in chiave, verrebbe da dire, preconizzatrice di un futuro ora diventato il nostro presente – nel senso di scoprirci dentro la percezione lucida di un mondo mercantilizzato. Ora non solo mercificato, come era stato detto, ma anche privato e in via definitiva della speranza di una qualche fuoruscita della palus putredinis in cui lo aveva accompagnato Sanguineti. Senza più Arianne possibili, posto che ce ne fossero, e non ce n’erano, nel testo del ’56.
Va pure detto che Laborintus, ancorché mantenga la sua carica eversiva, è comunque opera datata, non pensabile se non in quel tempo e soprattutto in prossimità con la grande esplosione di quella forma dell’Avanguardia che fu in Italia l’esperienza del Gruppo 63. Di cui Sanguineti fu magna pars, come è noto. Ma va pure detto, e Risso lo dice, che, letta dentro l’orizzonte sanguinetiano, l’opera è tutt’altro che un unicum, nel senso che dopo di essa «Sanguineti, per ciò che riguarda il metodo, l’atteggiamento e l’ottica di azione creativa non ha fatto altro che laborintizzare mutando, di volta in volta, il vocabolario e soprattutto diversificando le tecniche formali a seconda dell’oggetto indagato e rappresentato». Il che significa che questa analisi del poemetto è anche una chiave di ripensamento dell’intera produzione letteraria di Sanguineti, vista, ed è qui la validità dello studio, attraverso la lente d’ingrandimento di uno specifico atto di montaggio (fatto a sua volta di tanti atti) vivisezionato dentro l’officina autoriale – che ha poi mantenuto intera la sua efficienza. Con la specificità che, essendo in genere il linguaggio di Sanguineti un impasto di linguaggi «che contengono in sé contemporaneamente pars destruens e pars costruens dell’azione poetica», il risultato di Laborintus è la prima., certo la più notevole, testimonianza concreta dell’essere già il destruens un costruens, dell’essere cioè uno strutturare, il liberarsi del vecchio un costruire il nuovo.