Erminio Risso, Laborintus di Edoardo Sanguineti

27-03-2007
Il poema giovanile presentato come la Divina Commedia, di Laura Santini
 
Fare un bilancio sul suo lungo rapporto con Edoardo Sanguineti.
Erminio Risso, ricercatore di Italianistica all'Università di Genova, lettore di inediti e insegnante, non si sente ancora pronto per farlo, nei confronti di una persona «così estremamente viva». Fino ad ora le sue aspettative sono state tutte confermate, «mai deluse da un poeta e intellettuale di respiro internazionale, che ha rotto tutti gli schemi di interpretazione», afferma deciso.
Da pochissimo è arrivata in libreria l'ultima fatica di Erminio, un'edizione completa di Laborintus, poema di formazione scritto da Sanguineti all'inizio degli anni '50, a soli 21 anni, e pubblicato nel 1956. «È sconvolgente - continua Risso - se si pensa all'epoca in cui Sanguineti ha steso questo lavoro. Sono anni in cui l'Italia parla ancora di neorealismo, e lui, un giovane in perfetta solitudine scrive riflettendo sullo stato europeo e mette in relazione un componimento poetico con tutta una serie di pensieri cosmici». Un contatto afferma Risso con il laboratorio di scrittura più intimo che gli ha permesso di entrare senza filtri nel metodo di costruzione dell'opera.

Annotato e opportunamente commentato il poema è restituito in questo volume per intero in tutta la sua complessità. Diviso nelle 27 sezioni originarie (pubblicate in parte tra il '51 e il '53 sulla rivista fiorentina Numero) Laborintus è anticipato in un'ampia introduzione (ordinata in 17 capitoli) dal significativo titolo Anarchia e complicazione: qui Risso fornisce le coordinate storico-sociali, politiche, letterarie e stilistiche del lavoro in versi che in un primo progetto - come affermato da Sanguineti stesso in una testimonianza raccolta da Fabio Gambaro (1993) - «non doveva essere un'opera esclusivamente in poesia ma un libro con sezioni diverse in cui [...] si costruiva il personaggio di Laszo Varga, un nome [...] preso a prestito da [...] un fatto di cronaca. Doveva essere un'opera concepita secondo modi di scrittura eterogenei, [...] comprendente più generi». L'intensità d'articolazione e la vivacità del progetto iniziale restano in questo lavoro di fine tessitura, mai garbuglio da svolgere ma forma nuova da saper leggere.
E risso conduce il lettore nell'ardua prova con metodo, dotandosi di un discorso scorrevole ma sempre accurato per proporre una via anche didattica di approccio al poema.

Le singole sezioni sono introdotte e annotate con un fitto apparato di note sul modello dei testi didattici danteschi.
«La novità è che ho scelto di trattare Sanguineti esattamente come fosse un classico, come Dante. Per dare un'introduzione globale proprio come si fa con la Commedia». Cogliendo i frutti di una ricerca condotta durante gli anni di dottorato con Franco Vazzoler, Risso ha trasformato quella che era una tesi, in un testo capace di rivolgersi «non a un fruitore tipico universale, ma a tutti quelli che provassero interesse, o volessero cominciare a leggere Sanguineti e, poi certo, agli specialisti».

Un puntuale approfondimento intorno alla ricchezza dei riferimenti fa esplodere il testo, da molti considerato ostico, in tutta la sua potenzialità, dominando il caos e conducendo per mano il lettore in una visione già globale del mondo e dell'essere umano cosizzato. Ci porta al cospetto di un Sanguineti che ancora non è materialista storico, né parte del gruppo '63, certo ha già letto i cosiddetti maestri del sospetto, Jung, ha affrontato una certa lettura di Nietzsche, ed è già proiettato verso il mondo più che verso gli stretti confini nazionali. Un lavoro che Risso colloca «nella linea vittoriniana di rifondazione di una cultura che sia davvero pensiero critico».
«L'obiettivo era rendere del tutto fruibile un libro così complesso e non cadere nell'errore di fare una critica scarsamente comprensibile, ricalcando un modello artistico».

Quasi privo di punteggiatura Laborintus è, come suggerisce Risso, una discesa agli inferi che metaforicamente si fa indagine di una società e del suo possibile futuro in un tempo ancora molto scosso e frastagliato.
«Sanguineti percepisce diversi stati di trasformazione dell'era a venire e per esempio parla già di globalizzazione, a pochi anni dalla crisi atomica e dalla crisi di Corea, affronta la neonata idea di società post-atomica che tanto peso avrà in seguito rispetto alle posizioni militari e all'incombente spettro dell'autodistruzione.
Emerge una realtà senza veli, fuori dalle ideologie, nel senso di falsa coscienza o realtà precostituita che lui potrebbe gettare sul mondo». È proprio questo il fascino che Risso continua a trovare in Sanguineti: «una disponibilità a 360°, senza strutture precostituite».

Ma perché a cinquant'anni di distanza val la pena di leggere proprio questo testo? «Perché è uno dei testi più interessanti della letteratura italiana del secondo Novecento. Perché trasmette un'idea di letteratura non come fuga ma come confronto continuo, nel tentativo di interpretare e modificare la realtà per quanto complessa e articolata sia, senza cadere mai nel nichilismo».