Mataloni, l'antidoto alla contemporaneità è il ritorno a Moravia, di Elio Paoloni
Viene citato solo a dieci pagine dalla fine, in modo apparentemente casuale. Ma il nome di Moravia mi frullava in testa sin dalla prima pagina e non solo per corrispondenze sintattiche e lessicali: come molti scritti dell’autore de La noia, il romanzo di Mataloni è dedicato all’analisi di un menage, alla spettroscopia razionalissima eppure surreale –come è surreale ogni skopìa– di un rapporto prima amoroso e poi matrimoniale. L’indagine psicologica, la smania di incasellare l’impalpabile, l’io penso che tu pensi che io penso, tutto si avvita in una spirale maniacale, tanto che la vita dei personaggi risulta esclusivamente emotiva e psicologica. Anche la componente corporea, sessuale, finisce per disincarnarsi in un erotismo cerebrale che si nutre del rinvio: l’appartamento visitato dai due protagonisti sembra isolarli come estraniava la coppia di Ultimo tango a Parigi, anche se non sarà un breve interludio.
È l’esasperazione del romanzo borghese, la descrizione di vite –con corredo di dialoghi– che sembrano non avere alcuna attinenza con la vita là fuori, di individui che se pure hanno un’attività sembrano dedicarvisi quasi casualmente senza lasciarsi distrarre dalla loro occupazione principale: la lucida e accorata disamina del vissuto.
Tra tanti testi sferraglianti di realismo, puntigliosi repertori di marche e resoconti di lavori così precari da risultare virtuali, un libro così crea una cortina di silenzio. Non vuol rappresentare la nostra epoca, racconta problemi senza tempo, come senza tempo è la sonata beethoveniana che scandisce la relazione. Occupandosi di uno dei tempi del Chiaro di luna Mataloni si sofferma in realtà sul Tempo concesso all’arco dell’esistenza: il vero tema del libro è il decadimento. La vecchiaia è presente già all’inizio della relazione: costituisce la condizione “vergognosa” del narratore di fronte alla giovinezza dell’amante. Ma poi il tempo infierisce maggiormente proprio su di lei e lo sforzo dell’analisi si appunta sull’anamnesi, nella convinzione parascientifica che una innocua e gioiosa bizzarria decennale non fosse che l’avvisaglia della malattia, “l’avanguardia trascurata”.
Quello di Mataloni, jazzista settantacinquenne, è un esordio molto tardivo (se si esclude un inedito del 1971). Si potrebbe pensare che questa sia la causa della sua distanza da temi e modi della letteratura recente. Ma l’immunità è dovuta probabilmente alla fortunata circostanza di aver praticato un’altra arte. La sua poetica è dichiarata in un dialogo: “Scriverò fino a che avrò qualcosa da raccontare, che abbia un senso non contingente ma profondo e possibilmente traslato. Nel modo più convenzionale possibile. Ci abbiamo messo secoli per codificare la parola e ora la nostra noia di benestanti vorrebbe scardinarla”.