Quanto ci piace il cinema a mano armata, di Dario Goffredo
Il tuo libro è un ben riuscito compendio sul poliziesco all’italiana degli anni ’70. Da dove nasce la tua passione per il genere poliziottesco?
La mia passione nasce dal fatto che con questo tipo di cinema ci sono praticamente cresciuto.
Nelle sale di provincia, sul finire dei ’70, venivano proiettate quasi esclusivamente pellicole appartenenti al cosiddetto cinema di genere italiano, che comprendeva tutti i filoni più in voga del momento; dal giallo-sexy allo zombie movies ecc.. il poliziottesco mi colpì particolarmente perché nonostante l’efferatezza permetteva, a me ragazzino di provincia, di immaginare le grandi città, quei mondi metropolitani che a me sembravano incredibili.
Negli ultimi anni in Italia si è risvegliato l’interesse del pubblico per questo filone. A cosa è dovuto secondo te, e c’è stato un medesimo interesse della critica?
L’interesse del pubblico per questo filone è sicuramente aumentato negli ultimi tempi. Molto è dovuto alle parole di elogio di Quentin Tarantino per il nostro cinema di genere. Bisogna però dire che si è fatta e si continua a fare molta confusione. Personalmente a chi vuole saperne di più su questo tipo di cinema consiglierei gli scritti di quei critici che si sono sempre occupati di questa materia.
A che cosa era dovuto secondo te il successo di quei film in sala? A che tipo di bisogno del pubblico rispondevano e perché?
Prima di tutto bisogna ricordare che all’epoca la fruizione di un film poteva avvenire in un solo modo, cioè andando al cinema, infatti in ogni sperduto paesino vi era almeno un cinema. Ne consegue che il numero degli spettatori era elevatissimo e c’era spazio per qualsiasi tipo di film.
Il poliziottesco, a mio modo di vedere le cose, ebbe un successo straordinario, perché al contrario dello spaghetti western oppure dell’horror, era ambientato in scenari reali, lo spettatore che viveva in una grossa città poteva specchiarsi nel malcapitato vittima di uno scippo o nell’ avventore dell’ufficio postale che capita nel bel mezzo di una rapina. Inoltre il poliziottesco dava la possibilità di rendere visibile quella violenza relegata nelle pagine di cronaca dei quotidiani che la TV dell’epoca non si sognava neanche di mandare in onda. Non dimentichiamoci però che siano negli anni ’70, cioè il periodo storico più violento che l’Italia ha vissuto, guerra esclusa.
Alcuni tra gli attori che hanno lavorato in quelli anni si distinguevano tra gli altri per spessore e capacità attoriali come Franco Nero e Enrico Maria Salerno…
Beh, stiamo parlando di due buoni attori. Franco Nero ha lavorato con registi del calibro di Bellocchio e Fassbinder; Enrico Maria Salerno ha girato oltre 90 film. Quando la produzione aveva a disposizione un budget alto anche il cast era di livello superiore. Ma il discorso è molto lungo e complesso e la scelta del cast molto spesso non era dettata solo dal budget.
Un caso a parte è Tomas Milian, vera icona del genere insieme forse a Maurizio Merli. Ce ne parli?
Tomas Milian inizia a lavorare in Italia nel cinema d’autore. Una delle sue prime apparizioni è addirittura in un film di Luchino Visconti. Poi negli anni ’70 interpreta ruoli da protagonista in tutti i filoni del cinema di genere italiano dal western anarchico Vamos a matar companeros al giallo Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci. In seguito diventa uno dei volti più noti del poliziottesco girando film come Milano odia: la polizia non può sparare e Roma a mano armata.
La sua notorietà è però aumentata a dismisura quando dopo la morte del filone poliziottesco si è cercato di riesumare questo tipo di cinema virando sulla commedia- parodia e Milian ha interpretato il personaggio del maresciallo Giraldi (che molti confondono con er monnezza) al fianco di attori comici come Bombolo e Enzo Cannavale, ma questi film non possono essere considerati poliziotteschi.
Che cosa distingue il poliziottesco dagli altri generi “crime” come il giallo, il noir o il poliziesco vero e proprio?
Bisogna chiarire alcune cose fondamentali. I “generi cinematografici” sono una convenzione che permette di classificare i film in base a caratteristiche o temi ricorrenti, e in questi casi si può parlare di poliziesco, western, erotico ecc..
Quando invece, come nel nostro caso, si parla di “cinema di genere italiano” parliamo di una cosa molto differente, parliamo dei cosiddetti “filoni”.
Ti faccio un esempio; quando parliamo di genere cinematografico noi diciamo western, quando parliamo di cinema di genere italiano facciamo riferimento allo spaghetti-western.
Stesso discorso vale per il poliziottesco che è la versione italiana anni ’70 del genere poliziesco.
Per elencare differenze e distinzioni non basterebbero decine di interviste. Basti sapere che il termine poliziottesco nasce come termine dispregiativo, proprio per “marchiare” quelle pellicole piene di violenza esplicita e azione dove dialoghi e contenuti spesso avevano un ruolo marginale.
E’ interessante notare come nel mare magnum del filone ci sono anche alcune chicche di grande valore come i film tratti dai romanzi di Scerbanenco, ormai considerato unanimemente il maestro del noir italiano o le colonne sonore, firmate da maestri riconosciuti a livello mondiale come Bacalov o Morricone.
Questa tua domanda mi da l’opportunità di chiarire meglio un concetto, mi riferisco a quando dicevo che si è fatta e si continua a fare molta confusione. Tu stesso hai detto che Scerbanenco è autore di noir, così come sono assolutamente dei noir molti dei film tratti dai suoi scritti. Probabilmente gli esempi più clamorosi sono I ragazzi del massacro e Milano calibro 9 entrambi diretti dal pugliese Fernando Di Leo. Questi due film, specie il secondo spesso vengono catalogati come poliziotteschi, ma non lo sono assolutamente. Milano calibro 9 può essere considerato, anzi lo è senza ombra di dubbio, come un film che ha contribuito in maniera fondamentale alla nascita del filone poliziottesco, ma è un noir a tutti gli effetti.
Per quanto riguarda i compositori il discorso è molto semplice, nessuno rifiuta un ingaggio ad inizio carriera e quindi hanno scritto musica per tutti, anche per quei film considerati “minori”.
Nel tuo libro parli di un film, da te definito il gioiello perduto, Cani arrabbiati, del regista di culto Mario Bava, ci racconti brevemente la storia di questo film?
Ho definito Cani arrabbiati “il gioiello perduto” perché questo film girato nel settembre del 1973 non arrivò mai nelle sale. Il film era prodotto da Roberto Loyola, con un budget ridicolo, ma Mario Bava come al solito fece di necessità virtù e riuscì a confezionare un bel film. Purtroppo la società di Loyola dichiarò fallimento e il film non trovando distribuzione finì nel dimenticatoio. Nel 1995 Lea Krueger, la protagonista femminile, riuscì a farlo uscire in dvd in Germania. Successivamente sono state immesse sul mercato diverse versioni di Cani arrabbiati. Nel 2004 ha visto finalmente la luce la versione definitiva con il ripristino dei dialoghi originali e soprattutto del finale, per questa versione però non si è potuto utilizzare il titolo originale e si chiama Semaforo rosso.
Ci sono alcuni film che secondo te meriterebbero di essere considerati capolavori tout court e non solo pietre miliari del genere?
Non saprei dirlo, posso però affermare con certezza che con il budget a disposizione i nostri “artigiani” hanno fatto senz’altro il massimo. Un Inseguimento come quello iniziale di Il cittadino si ribella farebbe impallidire chiunque ancora oggi; un cattivo come il Giulio Sacchi interpretato da Tomas Milian in Milano odia: la polizia non può sparare oggi non troverebbe spazio in nessuna sceneggiatura; e lo stesso Quentin Tarantino per il suo Reservoir dogs – Le iene si è palesemente ispirato a Cani arrabbiati. Per questi e tanti altri motivi il poliziottesco ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del cinema italiano e forse oggi dove al cinema è quasi d’obbligo il politicamente corretto e l’happy end, una massiccia dose di cinema “a mano armata” vecchio stile ci farebbe bene.