Salento, una lingua che sa di "Mandorleamare", di Pietro Sisto
La Puglia, che in passato non si è particolarmente distinta nel campo della narrativa, sembra vivere in questi ultimi anni una nuova, brillante «stagione» grazie a un gruppo sempre più nutrito di scrittori che riescono a imporsi all’attenzione del pubblico dei lettori e della critica ben oltre i confini regionali.
Tra gli esordienti va sicuramente segnalato il salentino Fabrizio Petrelli, nativo di Monteroni, esperto di diritto per esigenze professionali ma scrittore per vocazione, che ha recentemente pubblicato con l’editore Manni Mandorleamare (pp. 109, euro 11, finalista del premio Città di Cuneo), un’intensa, avvincente «storia» che ha come principale protagonista Ettore, sospeso tra passato e presente, tra i ricordi di una guerra «persa, sbagliata, vigliacca» voluta da Mussolini e dal fascismo e la travolgente passione per una combattiva, bella partigiana, Lisa, rivista dopo tanti anni e di cui si innamora nuovamente, nonostante da allora siano cambiate tante cose in lui e intorno a lui.
Una storia dolce e triste allo stesso tempo, ritrovata in tanti fogli battuti a macchina dallo stesso Ettore, destinata a concludersi solo davanti alla forza devastante della malattia e della morte che colpiscono Lisa e raccontata con stile elegante e discreto dallo scrittore. Che riesce sempre a penetrare nelle pieghe più intime e nascoste dei personaggi, a dare profondità e spessore a vicende che potrebbero a prima vista apparire come una semplice, scontata «storia d’amore».
Anche perché Petrelli esibisce una particolare attitudine a descrivere l’ambiente, il paesaggio che fa da sfondo al racconto: non tanto l’Italia della Resistenza, degli anni Cinquanta, dei gruppi neofascisti e del ’68, quanto il «suo» paesaggio, il Salento, pregno di odori e sapori inconfondibili, di luci e colori irripetibili, di suoni e gesti familiari fatti rivivere attraverso il lento, inesorabile susseguirsi delle stagioni. Una terra dove si ascolta il canto furente dei grilli e delle cicale, dove «gente elegante sa vivere bene in un’oasi felice, diversa dal resto del sud», dove il profumo degli eucalipti si confonde con l’odore delle pastefrolle ripiene di crema, dove non è facile comprendere appieno e subito «quel dialetto che sa di mandorle amare, pronunciato a denti stretti, soprattutto dagli anziani» e che evoca alla mente l’oscuro, inspiegabile destino degli amori difficili, nati tra le spine della guerra e sopravvissuti a tutto.
Una terra di frontiera, insomma, di grandi e forti contrasti, di masserie fortificate e di torri cadenti che sanno di sale e di sole, di case rosse sfuggite a stento all’assalto della modernità dove alla fine, nell’incanto di tramonti accesi e infiniti, «strane famiglie» riprendono a vivere e a sperare nella straordinaria forza dell’amore per gli altri e soprattutto per la propria terra, per un mondo «fatto di vento che porta, incessante, il respiro delle onde».